Assaggio di Mondiali con Federico Buffa

di Aldo Grasso per Il Corriere della Sera

«Chi sa solo di calcio non sa niente di calcio». Come exerga, come citazione che suggella un racconto fuori dell’ordinario sui Mondiali di calcio, Federico Buffa ha scelto una frase di José Mourinho. Avrebbe potuto scegliere una citazione più colta, ma chi sa non ha bisogno di far sapere che sa. La cultura non è la somma dei propri saperi, ma un’attitudine specifica del soggetto.

Sky Arte e SkySport entrano in clima Brasile con «Storie Mondiali», la serie in dieci puntate che vede Federico Buffa evocare gli episodi magici e incredibili che hanno segnato il più importante torneo internazionale di calcio. Ha iniziato con Brasile 1950, ha proseguito con Germania 1974, continua con Uruguay 1930… Buffa è un formidabile storyteller, una narratore di storie che si diramano per mille rivoli. O meglio, i racconti di Buffa hanno una struttura ad albero: il tronco è il calcio, i rami sono le connessioni che via via prendono corpo attraverso associazioni, link, collegamenti, divagazioni.

A differenza di alcuni giornalisti sportivi che in passato amavano esibire il loro sapere di fronte a una platea non particolarmente attrezzata, Buffa sa che cultura è innanzitutto fare bene le cose, coltivare i dettagli (magari con alcuni vecchi Lp). La nostra tv fatica a fare cultura perché non riconosce più il fondamento stesso della cultura: un sapere che si assimila alla ricerca di un assoluto, sciolto da qualsiasi vincolo di obbedienza, da qualsiasi funzionalità rispetto al corpo sociale.

A volte Buffa dà l’impressione di essere come l’Olanda di Cruijff contro la Germania, «si guarda un po’ allo specchio». Emilio Cecchi, parlando dell’arte tessile degli Indiani Navajo, scriveva che le donne, tessendo un tappeto, lasciavano nella trama e nel disegno una piccola frattura, una menda: «Affinché l’anima non le resti prigioniera dentro al lavoro». Si vietavano deliberatamente la perfezione.