Benvenuti a taroccolandia

Di Giovanni Tizian per l’Espresso

Una volta dentro la pancia del magazzino, l’impressione è di trovarsi in un laboratorio di alta pelletteria. Una succursale di Fendi e Gucci. Peccato che tutto ciò che produce è falso.

A terra c’è ancora qualche avanzo di cuoio marrone con il logo Louis Vuitton. In fondo, incolonnati, ci sono i fusti rossi del colore utilizzato nella lavorazione.

La fabbrica in cui è entrato “l’Espresso” è spaziosa e ha larghe finestre dalle quali filtra abbondante luce. Per raggiungerla bisogna lasciarsi alle spalle il golfo di Napoli e avvicinarsi al profilo del Vesuvio.

Arrivati a Somma, e risalito un groviglio di vie alle pendici del vulcano, si entra nel polmone della maison della contraffazione, dove le differenze tra autentico e imitazione sono minime, se non nulle. La sorgente delle borse che gli immigrati offrono sulle spiagge, provocando l’indignazione ferragostana del ministro Angelino Alfano, è in questo fazzoletto di territorio attraversato da un fiume di denaro nero. Per la camorra è il “quadrilatero d’oro”, e qui sorveglia ogni passaggio dell’affare.

Per indicare questo El Dorado, gli investigatori della Finanza, tracciano sulla cartina quattro linee che uniscono i comuni di San Sebastiano, Terzigno, San Giuseppe e Somma Vesuviana. Tra vitigni e alberi di mele annurche è cresciuto un Far West di piccole e medie aziende invisibili al fisco. Allestite in garage costruiti nei cortili di grandi case private abitate da coppie di anziani. Che li affittano agli imprenditori per pochi spiccioli ricavando un gruzzoletto da un immobile che altrimenti rimarrebbe vuoto. Il clan detta legge e decide il prezzo insieme agli stilisti improvvisati. In media cinquecento euro per 800 metri quadrati, ma se ne trovano anche per molto meno.

Un business che in Italia è stato stimato dal ministero dello Sviluppo economico tra i tre e i sette miliardi di euro, secondo solo al traffico di droga. E di cui i “vu cumprà” – come li ha definiti Alfano – raccolgono solo le briciole. «Le nostre indagini hanno mostrato che il ritorno economico per un’organizzazione può arrivare fino al 400-500 per cento dell’investimento iniziale», spiega il colonnello Nicola Altiero che per tre anni ha guidato il Nucleo di polizia tributaria di Napoli.

Il network è fatto di imprese che seminano quattrini per triplicare i profitti: per la filiale abusiva di Fendi e Gucci il titolare ha investito un milione di euro solo in macchinari. Li ha ripagati in soli 120 giorni, guadagnando 240 mila euro al mese. Dall’importazione al commercio, passando dalla produzione allo smaltimento dei rifiuti, non esistono fatture o scontrini. La filiera è controllata da cartelli criminali a partecipazione mista. Ognuno con un ruolo ben definito.

Accordi globali
Wang Guan Bin. Nome in codice Marco. È un punto di riferimento per i padrini che si arricchiscono con la moda. L’ingrosso di abiti made in Cina che gestisce a Casagiove, nel casertano, è solo una copertura. Di mestiere fa il broker, esperto di merce taroccata, per i camorristi. Con una telefonata è in grado di muovere migliaia di simil Hogan, Nike, Adidas, e piumini Moncler in lungo e in largo per il mondo. È la pedina che serve alle cosche.

Queste gli chiedono i modelli, lui ordina ai produttori cinesi e smista i nuovi arrivi. Gli accordi prevedono una spedizione a settimana. C’è una telefonata intercettata nell’indagine “Via della seta” condotta dalle Fiamme Gialle, che descrive la dimensione globale del fenomeno: un procacciatore d’affari cinese, Chen, propone a Marco Guan, rappresentante, secondo gli investigatori, del gruppo camorrista Mazzarella, l’invio settimanale di migliaia di scarpe. Costo 200 mila euro. Dietro l’operazione intercontinentale c’è la mano dei fratelli Mario e Roberto Murolo: «Imprenditori alle dirette dipendenze del boss Luciano Mazzarella».

I due maneggiano una montagna di denaro che reinvestono nel settore. Al resto ci pensa Marco: l’intermediario che suggerisce ai referenti cinesi cosa produrre in base alle mode del momento. I mercanti delle organizzazioni investono anche in Turchia, da dove arrivano i jeans (Roy Rogers e Jeckerson) e capi d’abbigliamento estivi, e in Bangladesh, specializzati in t-shirt. Qui molte multinazionali delocalizzano per tagliare i costi. Per questo il sospetto degli inquirenti è che parte del sovrappiù originale possa essere spacciato nei circuiti paralleli: sono falsi sfornati negli stessi stabilimenti che confezionano i marchi autentici.

Le rotte
In Cina c’è parte della produzione, lì si stabiliscono le rotte delle navi cargo che dovranno raggiungere i porti italiani ed europei. Seguono due direzioni: dal Sudamerica fino in Spagna o Olanda; oppure dalla porta turca verso Grecia, Polonia e Bulgaria. Destinazione finale è l’Italia.

Fino all’anno scorso i carichi arrivavano negli scali di Napoli, Genova e Gioia Tauro. Ma gli eccessivi controlli li hanno dirottati verso Rotterdam, il Pireo e gli hub spagnoli. Dove la vigilanza è minore. Superati i confini italiani, la mercanzia viene messa in ordine sugli scaffali di grandi depositi. In Campania, ma non solo.

Molti dei tir che partono da Rotterdam scaricano in Lombardia. Altri nel Lazio: Roma è diventata un crocevia del sistema. Un anno fa, nella periferia della capitale, al di là del raccordo anulare, è stato sequestrato un intero stabile: due commercianti cinesi avevano stoccato 10 mila paia di simil Adidas, Nike e Hogan. Il via vai di camion e furgoni non aveva insospettito i proprietari delle ville accanto.

I grossisti sono finiti nell’inchiesta Alì Babà della procura antimafia di Napoli. Lavoravano su commissione di gruppi italiani e avevano contatti diretti con i rappresentanti delle fabbriche orientali. I detective hanno inoltre scoperto che spesso gli affiliati campani inviano propri emissari tra Shanghai e Pechino per il controllo qualità.

Il viaggio di un container, per aggirare i controlli, non è mai diretto. Il meccanismo è spiegato da due personaggi, coinvolti nell’operazione “Compagnia delle Indie”, che aspettano ansiosi 6 mila scarpe: spedite dalla Cina in Brasile, poi da lì inviate nel porto franco di Ceuta, in Marocco, dove grazie all’appoggio di un agente delle Dogane, sono state trasferite in Spagna, ad Algeciras. Da qui, dopo essere state sdoganate, sono partite, passando da Barcellona, alla volta di Genova.

Una volta entrate in Italia finivano in capannoni anonimi della Lombardia. Anche il pellame, le tomaie, le suole, i tessuti, seguono gli stessi tragitti. Spesso sono modelli identici a quelli delle grandi maison, ma senza etichetta. In questi casi, gli operai dei laboratori clandestini, disseminati nelle province di Napoli e Caserta, si limitano a cucire le targhette.

Produzione
L’esperienza dei mastri pellettieri campani è diventata il valore aggiunto della camorra: prima hanno affiancato il falso alle loro creazioni, e dopo qualche tempo hanno scelto di dedicarsi solo al mercato nero

La crisi e la concorrenza spietata li ha fatti finire sul lastrico. In loro soccorso è andato il clan, che si è messo a disposizione offrendogli la possibilità di entrare nel giro. «È in un simile contesto che matura l’ingresso di piccole imprese artigianali nella filiera del falso», spiega il colonnello Altiero, «una dinamica favorita anche dalla stretta creditizia che queste hanno subito negli ultimi anni, in un territorio in cui i clan hanno invece forti disponibilità finanziarie».

Nel quartiere di Secondigliano “l’Espresso” è entrato in un laboratorio a gestione familiare. Qui da quindici anni quattro maestri creano splendide borse in pelle. Dietro la porta in ferro battuto le regole si interpretano, si muovono sul filo della legge. «Realizziamo modelli che possono sembrare Chanel o Hermès, ma come può vedere sono senza targhette», spiega uno di loro, che ammette: «Se i nostri committenti, una volta fuori di qui, cuciono etichette di alta moda non è nostra responsabilità, ma loro».

Vendono senza marca e rischiano zero. A differenza di quanto avveniva a Casoria, zona nord di Napoli, dove in una cantina lugubre, sudicia, con i vetri delle finestre oscurati, lavoravano una decina di persone, tutte italiane. I rotoli di pelle, ammassati nei cartoni, e le stampe Louis Vuitton sui tavoli lasciano poco spazio alle interpretazioni: è il paradiso del fake. Migliaia di famiglie vivono grazie all’industria della contraffazione, che fa da welfare per imprese in crisi e disoccupati. Lo stipendio medio si aggira tra i 600 e i 700 euro, ovviamente senza contratto.

«A fronte di una disoccupazione che in via teorica risulta essere elevatissima, nelle aree interessate da questi fenomeni, l’occupazione è fiorente così come il giro d’affari dell’economia sommersa. Pagamento in contanti, low profile e falsa identità, sono le parole d’ordine di chi opera in questo campo», osserva Altiero. I contanti non mancavano al proprietario dello stabilimento sequestrato a Somma Vesuviana: i cloni perfetti gli facevano incassare 60 mila euro a settimana. Li otteneva grazie a rulli che riproducevano sul tessuto i disegni di Gucci e Fendi. Marchingegni costruiti da specialisti del settore. Dare un nome a questi insospettabili fornitori è in cima alle priorità di chi indaga. Ma, vista l’assenza di contratti e fatture, è molto difficile risalire la catena fino a loro.

Solo per intenditori
A Londra, ai confini della City, su un viale che taglia in due l’Est End, tra musei e teatri liberty, è aperto dal 2006 uno showroom della camorra. Scarpe e borse italiane a prezzi d’occasione. Nel negozio arrivava parte dei falsi, venduti però come originali. Stesso trucco utilizzato da negozianti italiani che vendono “roba mista” a Napoli e nel basso Lazio, in Lombardia e in Piemonte, in Liguria, in Calabria e in Toscana. Sono prestanome dei camorristi o commercianti che arrotondano spacciando per vere Hogan e Nike fasulle.

Su di loro le indagini proseguono. Anche se non sarà semplice individuarli viste le ottime imitazioni che mettono in vetrina. Intanto i controlli hanno dato i primi frutti: lo scorso novembre la finanza ha sequestrato 16 mila pezzi in un outlet della provincia di Caserta. Calzature, maglie e giubbotti di altissima qualità, con doppie cuciture e tessuti costosi, destinati a una clientela selezionata. E i blitz si sono ripetuti anche pochi giorni fa, perché in agosto si preparano le collezioni invernali, copiando quelle disegnate dagli atelier più fashion.

A un target elevato punta anche un altro clan napoletano, quello dei Contini. Noto alle cronache per la recente inchiesta sul riciclaggio nella catena di ristoranti “Pizza Ciro”, frequentati da vip e politici. Meno noti gli interessi nello spaccio di false Hogan assieme a un imprenditore affiliato ai Mazzarella. Un aspetto ancora inedito trascritto nei faldoni sulle pizzerie romane che svela una joint venture fatta di negozi compiacenti e incassi giornalieri fino a 3 mila euro. A Napoli il mercato della Maddalena, in piazza Mancini, è zona franca. Qui le regole le stabiliscono il clan Mazzarella e gli alleati Caldarelli.

Il fortino è delimitato da bancarelle che espongono Moncler, Hogan, Nike, Polo, Burberry, K-Way, Ray Ban. Gli ambulanti sono napoletani e stranieri. Blitz e verbali sono all’ordine del giorno. Eppure la scena si ripete ogni mattina: sistemano il banco e si preparano ad accogliere il fiume di clienti. La settimana si conclude con il versamento della tassa alle cosche. Ogni postazione paga 150 euro al capo Luciano Mazzarella che, secondo alcuni pentiti, incassa e divide con i Caldarelli dai 7 ai 10 mila euro ogni settimana. Il ricavo per la gestione della piazza è di quasi due milioni di euro l’anno.

Terra dei fuochi
Gli scarti del “Quadrilatero d’oro” finiscono spesso bruciati nei roghi che hanno avvelenato la Campania. Il disastro ambientale parte proprio dalla produzione in nero nei settori più diversi.

«Lo smaltimento tramite incenerimento è la fase terminale di una catena produttiva di una miriade di aziende del napoletano che, producendo in nero, hanno la necessità di smaltire attraverso un circuito illegale», si legge nell’ultima relazione della commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti. Ipotesi condivisa da chi indaga sul Far West del “Quadrilatero d’oro”: «Conferire i rifiuti, soprattutto quelli speciali, nelle discariche ufficiali equivarrebbe per tali organizzazioni a una vera e propria “auto-denuncia”: meglio sversare in modo occulto o appiccare dei roghi», conclude Altiero.

La scena si ripete alla fine di ogni giornata di lavoro: al tramonto partono le spedizioni di furgoni e camion che abbandonano il mucchio in zone isolate del distretto vesuviano oppure nella zona del casertano. Il profitto dei clan ha un prezzo: ambiente avvelenato e tumori. Effetti collaterali di un business che attira milioni di clienti nei suk della camorra.