Il bilancio è fuori dal Comune. Sono 292 le città nel baratro. Un’amministrazione ogni 27 è in dissesto. Castelli (Anci): “La crisi fatta pagare ai municipi”

Al Sud il numero più alto di enti in difficoltà. Secondo l'Anci è colpa dei tagli

“Il sindaco è il mestiere più bello del mondo. Quando fai il sindaco niente ti è estraneo di una città”. A dirlo, nel 2013, era Matteo Renzi. Al di là dell’autore della frase, è difficile che un primo cittadino possa smentire tale vocazione. Eppure al tempo stesso tutti confermerebbero che quello del primo cittadino è uno dei compiti più gravosi all’interno della pubblica amministrazione. Anche più di quelli nazionali. Il perché è condensato in un numero: 292. Sono i Comuni in stato di dichiarata criticità finanziaria. Parliamo del 3,7% dei municipi della penisola. A conti fatti, secondo l’elaborazione Ifel (Istituto per la Finanza e l’Economia Locale) dell’Anci, parliamo di un Comune ogni 27. E il dato peggiora terribilmente al Sud, dove risulta in una situazione critica addirittura un ente su 12 (sono 220 sui 292 complessivi). Inevitabile, allora, che aumentino i Comuni sciolti per incapacità di approvare il bilancio. Secondo i dati OpenPolis, gli enti commissariati per la prima ragione sono stati 10 nel 2016, 16 nel 2017 e già 12 nei primi otto mesi del 2018. “In neanche 3 anni – specifica l’Osservatorio – sono stati registrati il 31,40% dei casi dal 2001 ad oggi. L’incidenza della fattispecie sul fenomeno è ora evidente, considerando che per la prima volta sia nel 2016 che nel 2017 i commissariamenti per incapacità di approvare il bilancio hanno superato il 10% dei casi annuali”.

UN DISASTRO – Urge, dunque, chiedersi come mai sia di fatto complicato far quadrare i conti a livello comunale. “La crisi finanziaria ha prodotto una scelta in capo al legislatore: ridurre in maniera consistente la spesa dei Comuni”, spiega a La Notizia Guido Castelli, sindaco di Ascoli Piceno e responsabile Finanza Locale dell’Anci. Questa scelta, spiega ancora il primo cittadino, ha portato ad un dato che Giuseppe Pisauro, il presidente dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio, alla fine del 2017 ha anche quantificato: dall’inizio della crisi (in pratica, da Mario Monti in poi) su 25 miliardi di miglioramento dei saldi di finanza pubblica, 12 di questi sono stati generati da ridimensionamento di spesa degli enti locali. “In particolare – continua Castelli – 9 miliardi per quanto riguarda i Comuni e 3 per quanto riguarda le Regioni”. Parliamo, dunque, di un fortissimo ridimensionamento della spesa in capo ai Comuni. Ma non è tutto. “Nel 2012, come si sa, è stata introdotta la legge costituzionale sul pareggio di bilancio”. Questa legge ha portato con sé norme attuative che si sono condensate nella riforma della contabilità degli enti locali: la cosiddetta contabilità armonizzata. “È stata un’operazione verità che ha introdotto un principio secondo cui i Comuni possono spendere solo ciò che effettivamente hanno in cassa, mentre prima si poteva spendere anche ciò che si presumeva di incassare”, spiega ancora Castelli. Tutto questo ha portato al principio che impone ai Comuni “l’accantonamento di somme corrispondenti ai crediti di dubbia esigibilità. Questo Fondo ha portato a dover sterilizzare spesa accantonandola: parliamo di soldi non utilizzabili nei bilanci”. Ma quanto vale il Fondo crediti di dubbia esigibilità? “Attualmente è pari a 4 miliardi di euro. Il 70% di questa somma si concentra in appena 1300 Comuni”, spiega ancora Castelli.

ADDIO WELFARE – Una situazione decisamente critica, dunque, resa ancora più drammatica, spiega il responsabile Anci, dalla “cronica difficoltà nella pratica della riscossione locale, fondamentale con la contabilità armonizzata”. Per dire: “Ci sono Comuni che registrano una riscossione inferiore al 10%”. E così, come spiega ancora Castelli, spesso diventa difficile assicurare spesa soprattutto in fatto di assistenza e manutenzione. Sono ancora i dati a farci capire nel dettaglio la situazione. In Sicilia i Comuni in crisi, tra quelli in dissesto e pre-dissesto, sono 57 (il 14,6 degli enti siciliani), in Calabria 59 (il 14,4 degli enti calabresi).