Cota e Vendola ancora deputati. E i giudici stanno a guardare

di Vittorio Pezzuto

Viviamo giorni stanchi, in attesa di qualche evento, e la bonaccia politica che impedisce finora al Parlamento di gonfiare le vele della XVII legislatura sembra irretire anche i giornali italiani. Complice forse la fiacchezza di corpo e di spirito che accompagna i primi giorni della primavera, i sovvenzionati quotidiani del finanziamento pubblico offrono pagine semivuote di notizie, articoli uguali gli uni agli altri e ricami di giornata sulle informazioni già pubblicate dalla concorrenza. Capita, quando non si ha troppa voglia di grattare con la tastiera la sottile patina opaca che copre la realtà politica del nostro Paese. Per dire, nel week-end il quotidiano Libero ha deciso di copiare interi brani dell’inchiesta che La Notizia ha pubblicato una settimana fa sull’incredibile situazione delle decine di parlamentari incompatibili alla carica perché già assessori o consiglieri regionali. Un peccato veniale, se solo il suo estensore si fosse ricordato di citare la fonte in cui si è così abbondantemente specchiato. Quello che però più conta è che col passare dei giorni non accenna a diminuire il consistente numero dei furbetti in Parlamento che – violando apertamente il secondo comma dell’articolo 122 della Costituzione – insistono nel volersi sedere in contemporanea sulle doppie (e tra loro lontanissime) poltrone. Degli undici casi nella sola regione Puglia abbiamo già scritto. Un’attenta analisi dei siti istituzionali regionali, condotta a beneficio anche dei nostri colleghi, ci è servita a scovarne altri cinque solo in Calabria: i deputati-consiglieri Ferdinando Aiello (Sel) e Bruno Censore (Pd); i senatori-consiglieri Giovanni Bilardi (Grande Sud) e Antonio Stefano Caridi (Pdl) nonché il senatore-assessore Pietro Aiello (Pdl). A dare il cattivo esempio in Sardegna sono invece il senatore-consigliere Luciano Uras (Sel) e il deputato-consigliere Roberto Capelli (Centro Democratico). E vale magari la pena sottolineare en passant come quest’ultimo sia pure componente nell’isola della Commissione d’inchiesta sulla mancata applicazione delle leggi regionali… In Basilicata si distingue in negativo il deputato-consigliere Vincenzo Folino (Pd) mentre il monopolio maschile della categoria viene finalmente spezzato in Abruzzo dalla senatrice-consigliera Federica Chiavaroli (Pdl). Spicca poi il caso dell’incontentabile esponente del Pdl Mario Mantovani: all’impegnativa carica di vicepresidente della Regione Lombardia ha infatti voluto affiancare (non si sa mai) anche quella di senatore della Repubblica.

Vendola resiste a oltranza
Questo club di impresentabili avrebbe nel frattempo perso uno dei suoi membri di maggior spessore: il governatore del Piemonte Roberto Cota ha infatti annunciato di essersi dimesso da parlamentare, sommerso dalle critiche anche all’interno del movimento leghista. Ma il condizionale è d’obbligo, dal momento che ieri sera l’aggiornatissimo sito ufficiale della Camera lo riportava ancora tra i deputati in carica. Resta invece al suo (doppio) posto il leader maximo degli incompatibili, il governatore della Puglia. Verrebbe voglia di commissionare a quelli de “La Zanzara” uno scherzo dei loro, con un finto Nichi Vendola che telefona a Laura Boldrini per chiederle consiglio sull’opportunità o meno di rinunciare al suo doppio incarico. Ma dubitiamo che la presidente della Camera cadrebbe così facilmente nel tranello: sa bene come in questi giorni il “vero” Vendola non abbia infatti mostrato alcuna esitazione nel volersi tenere strette le due poltrone. Ce l’ha fatto intendere in tutti i modi: interpellare oltre la sua coscienza politica sarebbe come far rimbombare inutilmente la nostra voce in una stanza spoglia di ogni senso del decoro e dell’opportunità.  Con una robusta dose di spocchia democratica ha anzi dribblato ogni accusa, spiegando come la sua rimozione dall’elenco degli inquilini di Montecitorio non spetti a una sua autonoma determinazione quanto invece a una futura decisione della Giunta delle elezioni, peraltro ancora non insediata. E’ un campione di doppiezza (in tutti i sensi) e non v’è critica che possa scuoterlo facendo cadere a terra le foglie secche della sua ipocrisia. E quindi continua a sottrarre tempo al governo della sua regione così come a frequentare i corridoi e l’emiciclo di Montecitorio per intessere alleanze sul governo che (non) verrà e in vista della prossima elezione del capo dello Stato.

L’iniziativa radicale
Di fronte a tanta impudenza, i radicali hanno deciso di ricorrere con i loro legali ai Tribunali di Torino e di Bari affinché un giudice sancisca la decadenza di entrambi dalla carica di governatori regionali. Per farlo si sono appellati al quarto comma dell’articolo 6 della legge n. 154 del 23 aprile 1981, quella che regola appunto le incompatibilità alla carica di consigliere regionale. A prima vista il dettato della norma appare chiarissimo: «La cessazione dalle funzioni deve avere luogo entro dieci giorni dalla data in cui è venuta a concretizzarsi la causa di ineleggibilità o di incompatibilità». Significa che Cota, Vendola e tutti i loro tanti colleghi furbetti in realtà sono già decaduti dalla loro carica regionale? Ma quando mai. Questa prescrizione normativa non si realizza infatti da sé e a conti fatti la sua applicazione concreta assume le sembianze di una brutta replica dei regolamenti delle Giunte per le elezioni di Camera e Senato. A tal punto che ci è stato spiegato che il peggio che possa capitare ai consiglieri regionali incompatibili è soltanto una mortificante convocazione a Palazzo di Giustizia per vedersi imposto un termine ultimo entro il quale sanare la loro situazione irregolare. Tutto qui? Tutto qui.
Anche perché il tribunale di Bari non ha fin qui mostrato un briciolo di reazione alla denuncia radicale mentre la prima sezione civile del Tribunale di Torino ha fissato per il prossimo 31 maggio l’udienza del processo contro il governatore Cota. Campa cavallo. C’è da scommettere che quel giorno il tutto si risolverà in un ennesimo rinvio utile a conciliare i lunghi e distratti tempi della giustizia con i paralleli, lentissimi ingranaggi fissati dai regolamenti parlamentari. Si chiama “autodichia”, si legge “me ne frego”.