Dalla moneta all’immigrazione

di Lapo Mazzei

Morire d’Europa o morire per l’Europa? Certo, meglio non morire direte voi. E visto che di mezzo c’è il vecchio continente, inteso come entità politica ed economica, il pensiero vola subito all’euro, ovvero a quella moneta unica che ha unito le banche ma ha diviso gli europei. I ricchi, tedeschi e francesi, sono rimasti sulle loro posizioni. Italiani, spagnoli e greci, invece, sono finiti nel girone dei dannati. Dannati dall’euro e da una politica economica fatta solo di domande senza mai ricevere risposte. Dunque si può parlare di Italia tradita dall’Europa? Sostanzialmente sì, dato che il tradimento non è avvenuto certo oggi, figuriamoci ieri, ma ieri l’altro ancora. Ovvero con la nascita stessa dell’Unione europea. Correva l’anno 1946, quando il nostro Paese era appena uscito dalla seconda guerra mondiale e l’italietta in calzoni corti e scarpe rotte provava ad entrare in Europa.

Radici storiche
A Parigi, in occasione della Conferenza di Pace, l’allora primo ministro Alcide De Gasperi tenne un discorso storico che lo ha, di diritto, collocato nel pantheon dei padri fondatori dell’Unione europea. “Ebbene, permettete che vi dica con la franchezza che un alto senso di responsabilità impone in quest’ora storica a ciascuno di noi, questo trattato è, nei confronti dell’Italia, estremamente duro; ma se esso tuttavia fosse almeno uno strumento ricostruttivo di cooperazione internazionale, il sacrificio nostro avrebbe un compenso: l’Italia che entrasse, sia pure vestita del saio del penitente, nell’Onu, sotto il patrocinio dei Quattro, tutti d’accordo nel proposito di bandire nelle relazioni internazionali l’uso della forza (come proclama l’articolo 2 dello Statuto di San Francisco) in base al “principio della sovrana uguaglianza di tutti i Membri”, come è detto allo stesso articolo, tutti impegnati a garantirsi vicendevolmente “l’integrità territoriale e l’indipendenza politica”, tutto ciò potrebbe essere uno spettacolo non senza speranza e conforto. L’Italia avrebbe subìto delle sanzioni per il suo passato fascista, ma, messa una pietra tombale sul passato, tutti si ritroverebbero eguali nello spirito della nuova collaborazione internazionale”. Il tradimento, dunque, o la disattesa delle premesse se preferite, sta all’origine. E po’ come se avessimo partecipato ad un parto sbagliato. Ed oggi ne paghiamo inesorabilmente le conseguenze.

Italia penalizzata da sempre
Lasciandoci alle spalle le ragioni storiche per tornare al presente, va detto che le colpe dell’euro vanno al di là delle questioni economiche. Perché la creazione dell’attuale parlamento europeo, con la valanga d’infrazioni comminate al nostro Paese, come ha dettagliatamente raccontato questo giornale sul numero di ieri, sono il frutto amaro della crescita democratica dell’Italia. In pratica, quando all’orizzonte si profilò il compromesso storico fra Pci e Dc, sotto la regia di Aldo Moro, le cancellerie europee entrarono nel panico e volendo frenare l’avanzata del Partito comunista decisero di dare maggior vigore al Parlamento europeo, in modo tale da controllare politicamente Roma. Aldo Moro, con il suo illuminismo democristiano, pagò con la vita le proprie scelte. Dunque l’Europa non ha solo sistematicamente tradito l’Italia, ma fatto sì che la crescita, sia politica che economica, restasse sempre al di sotto dell’asticella fissata dall’asse Parigi-Berlino.

Addio made in Italy
I trattati economici, i rapporti di scambio, le mortificazioni subite dalla nostra agricoltura, a costante penalizzazione del made in Italy, tutto compreso, sono e restano sgarbi difficili da digerire. E da risarcire. Senza voler cedere troppo all’amarcord, occorre ricordare che durante tutto l’arco della vita politica di De Gasperi si manifestò in lui una tensione all’apertura verso contesti internazionali, anche come strumento di risposta alle gravi emergenze dell’Italia di allora, ma sempre rimarcando elementi fondamentali come l’indipendenza e l’autonomia democratica nazionale: “Badate bene che quando diciamo che non siamo nazionalisti”, sosteneva al Senato nel 1950 lo statista trentino, “lo intendiamo in questo senso, che cioè non vogliamo la soluzione di tutti i problemi attraverso la forza della nazione, attraverso l’iniziativa nazionale, e non diciamo qualche cosa che limiti le nostre forze reali, che diminuisca, comprima e deprima il nostro sentimento nazionale italiano: la base di tutte le cooperazioni è la nazione, in un consorzio di nazioni libere. (Vivissimi applausi)”. Cos’è rimasta di quella lezione, di quella visione, di quella tensione morale? Poco forse, a voler essere ottimisti.