Epidemia tra i dipendenti pubblici, con picchi di assenze guarda caso il lunedì

di Vittorio Pezzuto

Uno strano virus debilitante si aggira da anni nei palazzi di Ministeri, Regioni, Enti locali e costringe a letto i pubblici dipendenti molto più spesso dei loro colleghi nel settore privato. È improbabile che questo curioso fenomeno sia attribuibile a luoghi di lavoro fatiscenti e insalubri così come al disbrigo di mansioni particolarmente faticose. Tra l’altro i travet a tempo indeterminato e a stipendio comunque assicurato non vivono certamente lo stress che ammorba quanti operano in aziende private che – per effetto della recessione economica e della mancata riscossione dei crediti dalla stessa pubblica amministrazione – possono essere costrette a chiudere da un giorno all’altro oppure a licenziare parte dei propri dipendenti. E invece gli ultimi dati disponibili, relativi al 2011, certificano che i 3,5 milioni di dipendenti pubblici si ammalano in media quasi il doppio delle volte dei circa 13 milioni di dipendenti privati. Lo prova una rilevazione statistica dell’Inps, resa possibile da una riuscita riforma organizzativa delle modalità di trasmissione dei certificati di malattia. Dall’aprile del 2010 tutti i lavoratori dipendenti non sono infatti più costretti a inviarli a proprie spese tramite due raccomandate all’Inps e al proprio datore di lavoro (si calcola che abbiano così risparmiato circa 300 milioni di euro in spese postali). A sbrigare questa pratica tramite il proprio pc sono adesso i medici di famiglia e ospedalieri, che hanno finora trasmesso via web all’Inps più di 50 milioni di documenti: 2,6 milioni nel 2010 (periodo in cui il sistema telematico non era ancora entrato a regime); 18,2 milioni nel 2011 e 20 milioni nel 2012. Nei primi quattro mesi di quest’anno sono stati 9,1 milioni: un dato in crescita (+527mila unità) rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

Le resistenze dei medici
Nelle intenzioni dei suoi promotori, questa riforma avrebbe consentito di conoscere anche le cause degli eventi di malattia, così accumulando serie storiche di dati (su base regionale e per tipologia di aziende) in grado di migliorare le politiche sanitarie nel Paese. Purtroppo questo non è ancora possibile in quanto i medici di famiglia si sono finora sempre rifiutati di contrassegnare i codici che individuano le diverse patologie: queste ultime sono ricavabili solo dai certificati dei medici Inps, che costituiscono solo una minima parte del totale. L’unica base dati utilizzabile resta pertanto quella dell’invalidità civile, proprio perché sono i medici dell’Istituto a garantire la compilazione delle singole schede.
Il passaggio al nuovo sistema non ha comportato cambiamenti nell’attività di verifica dell’Inps. Nel 2012 sono state effettuate poco più di 1 milione e 200 mila visite di controllo. Di queste, 900mila sono state disposte d’ufficio dall’Istituto mentre quasi 300mila sono state richieste dai datori di lavoro. Le visite hanno dato luogo a una ripresa del lavoro anticipata rispetto a quanto stabilito nel certificato del medico curante nel 9% dei casi per le visite disposte d’ufficio e nel 5,5% dei casi per quelle su richiesta del datore di lavoro.

Italica furbizia
La consultazione dei dati fin qui raccolti conferma quanto da tempo va sostenendo la maliziosa vox populi. Un rapporto interno dell’Inps evidenzia ad esempio che nel pubblico ci si ammala per meno giorni ma con maggiore frequenza (in media 2,1 eventi all’anno contro 1,8); che la durata media della malattia più frequente è quella “compresa fra 2 o 3 giorni” (30% dei casi nel privato e 36% nel pubblico); che il lunedì è il giorno in cui ci si ammala più spesso (32% nel privato, 28% nel pubblico); che nelle aziende più piccole i dipendenti godono di una salute migliore (1,5 eventi di malattia all’anno in quelle che hanno fino a 5 dipendenti) forse perché una loro assenza viene subito notata e aumenta di molto il carico di lavoro dei colleghi; che quanti hanno la fortuna di avere un contratto a tempo indeterminato restano a letto circa 3 giorni in più di quanti lavorano con un contratto a termine (per questi le assenze in media sono di 14,8 giorni all’anno). Tutti dati di facile interpretazione e che purtroppo fotografano con tratti nitidi e inequivoci l’italica furbizia. Un termine che solo da noi continua a conservare una valenza tutto sommato positiva.