Eutanasia tabù. La grande ipocrisia sul fine vita: quando la pratica arriva prima della legge

Col caso Treviso l'Italia è andata molto vicino all’eutanasia. Un diritto che l’assenza di coraggio della politica continua a negare.

Essere aiutati a morire senza agonia quando la malattia non lascia più speranze, quando i dolori violenti e la sofferenza tolgono anche l’ultimo briciolo di dignità. È questo che chiedono ormai sempre più pazienti che sanno di non avere un domani. In Italia però la dolce morte o eutanasia è equiparata all’omicidio volontario, reato che prevede pene da 6 a 15 anni. Ecco perché quasi nessun medico ammette senza paura pratiche che ormai eseguono tutti come sospensione dei trattamenti, sedazioni terminali, ordini di non rianimazione. Perché nel nostro Paese si fa ma non si dice. Ieri, a Treviso, un malato di Sla è riuscito, ed è stato il primo caso in Italia, ad ottenere la cosiddetta sedazione palliativa. Dopo aver rifiutato qualsiasi trattamento, compresa la nutrizione artificiale è stato addormentato fino alla morte. L’uomo sapeva che gli rimanevano pochi giorni di vita, era lucido  e ha fatto la sua scelta. Molti pazienti però non arrivano sempre coscienti alla fine e la legge non li aiuta. I medici, che conoscono meglio di chiunque i decorsi delle malattie, pur essendo vincolati dalle norme, si sentono in dovere di non restare solo a guardare. E lo fanno da sempre di nascosto. L’eutanasia passiva e quella indiretta vengono praticate tutti i giorni, spesso sono gli stessi pazienti che lo chiedono, a volte i familiari.

Storia di sempre – In Italia la storia è quella di sempre: la pratica che anticipa la legge. È successo con gli aborti, prima praticati dietro le quinte e fin troppo pericolosi. C’è voluto un referendum per bloccare l’aumento senza fine del numero di interruzioni di gravidanza, con i rischi gravissimi che comportavano per le donne. Una legge controversa ha regolato dopo anni di battaglie la fecondazione artificiale. Anche l’eutanasia fa discutere da tempo, ma qui per il momento il legislatore non ha ancora trovato risposte. Nel 2006 il cuore di Piergiorgio Welby smetteva di battere. Inchiodato a letto, consumato da una distrofia muscolare, aveva 60 anni. La sua vicenda ha scatenato uno dei più accesi dibattiti politici ed etici sui temi del fine vita e dei diritti personali di autodeterminazione.

Diversi fino alla fine – Il vuoto legislativo in materia, però, a dieci anni dalla sua morte, non è ancora stato colmato in Italia. Il vuoto però non riguarda solo le leggi, “noi siamo indietro pure sulle terapie del dolore, sugli oppiacei, sulla morfina”, spiega Mario Falcone, Presidente del tribunale diritti e doveri del medico. Per motivi culturali si usano questi medicinali come nei paesi africani, cioè pochissimo, anche quando ce ne sarebbe bisogno”. Dando i farmaci in maniera più massiccia, infatti, si potrebbero anche evitare le richieste di eutanasia, spesso effettuate per non subire l’agonia”, continua Falcone. Ma poi se anche arrivasse la legge il problema sarebbero le strutture non adatte e attrezzate per ricevere tanti pazienti. Gli Hospice, infatti, già ora non riescono a coprire le richieste. C’è un vuoto culturale e manca la volontà di impegnare risorse per questi progetti. La situazione della sanità è al collasso anche per morire e la disparità che si ha nella vita si ritrova nella morte. Chi può pagarsi una struttura che lo ospita nella fase terminale può considerarsi fortunato.  Un paradosso.