Falce sulla reggia Farnesina

Di Alessandra Baduel per Repubblica

Al quarto piano la guardiola, grande quanto una sala riunioni, è deserta. Il corridoio prosegue fra nicchie, divanetti e porte chiuse. Dietro le poche che si aprono ci sono una o due persone dove c’è spazio per cinque. Secondo piano: altre venti stanze vuote, guardiola vuota, sala riunioni vuota. Percorrere i nove piani che compongono la Farnesina è un’esperienza illuminante: mille e trecento stanze, un totale di sei chilometri e mezzo di corridoi larghi almeno tre metri, il tutto disposto su 720 mila metri cubi, più o meno quanto la Reggia di Caserta.

Qui, al ministero degli Affari Esteri, fino a pochi anni fa lavoravano 2.500 persone e ora, fra prepensionamenti e snellimenti, sono 1.800. Il premier Matteo Renzi ha proposto non più di 24 metri quadrati per ogni dirigente pubblico. «Da noi — ci spiegano — ogni diplomatico a capo di un’unità ha suite con ufficio e salotto».

Benvenuti nel mondo dei costi — e degli sprechi — della diplomazia italiana ai tempi della grande crisi. Un quadro a tratti sconcertante, a maggior ragione pensando che questo è il volto politico dell’Italia nel mondo: sedi estere che restano aperte o vengono chiuse con criteri non sempre chiari, pensionati che collezionano consulenze, spazi inutilizzati e lavori per crearne di nuovi a pochi metri. Le sedi estere, appunto: ne sono state chiuse da poco 35, ma restano dei misteri.

Esempio: in Svizzera l’Italia ha mantenuto ben sei sedi, fra ambasciata a Berna (due edifici) e consolati a Basilea, Ginevra, Lugano, San Gallo e Zurigo. Solo Basilea è un consolato semplice, gli altri sono “generali” e/o “di prima classe”: i costi sono più alti, ovvio. La Francia ha due sedi, la Germania una sola. La stessa Svizzera ne raccomanda massimo tre, una per ogni area linguistica.

Secondo caso: Costa Azzurra. C’è l’ambasciata nel principato di Monaco, diventata tale solo nel 2006 (ministro degli Esteri Gianfranco Fini), con 10 addetti. Per l’ambasciatore Antonio Morabito era a disposizione un appartamento in affitto in Avenue Princesse Grace, una delle dieci strade più care al mondo (da poco lasciato). Venti chilometri più in là si staglia orgoglioso il consolato generale di Nizza: 10 addetti, oltre a console e viceconsole. Peculiare segnalazione sul sito: medico, architetto e avvocato “di fiducia”. Stava per rientrare fra le chiusure, resta aperto.

«Troppe pressioni», segnalano dai piani bassi della Farnesina. Doveva chiudere anche Brisbane, in Australia, Paese nel quale vantiamo sei sedi per soli 140 mila italiani (mentre in Brasile, ad esempio, ne abbiamo altrettante per 407 mila italiani). Apertura al pubblico: sei ore il martedì, sei il giovedì.

Chiuso invece il consolato di Scutari in Albania, Paese piccolo ma con cui abbiamo grandi rapporti e che dà un ricavo in visti di circa 300 mila euro. Risparmi della chiusura: circa 40 mila euro. Un diplomatico, anonimo, valuta: «I consolati si potrebbero eliminare quasi tutti, solo a saper far funzionare Internet e la struttura centrale per le pratiche burocratiche». Riguardo alle sedi, spiega: «Sono oggetto di trattative. C’è un rito collettivo che include ministero, Quirinale, Vaticano, Palazzo Chigi, presidenti di Camera e Senato, partiti, deputati».

Altro capitolo: i Comitati per gli italiani all’estero (Comites). Nati nel 1985 per rappresentarne le esigenze in Italia, sono 124, di cui 67 in Europa. Fanno capo a un Consiglio generale degli italiani all’estero (Cgie) di 94 consiglieri, di cui 65 dal mondo e 29 di nomina governativa. Costo: circa 20 milioni di euro l’anno. Sono di fatto un “doppione” dei 18 parlamentari eletti all’estero voluti dalla successiva legge Tremaglia (applicata dal 2006), e non è un caso che quei parlamentari difendano in genere i Comites. Alla Farnesina commentano: «Gli eletti all’estero si mobilitano spesso contro cambiamenti come la chiusura di sedi nel loro collegio elettorale».

E ancora. Non tutti sanno che dal 2011 esiste il Servizio europeo per l’azione esterna (Seae). È il corpo diplomatico dell’Ue, coadiuva il responsabile degli Affari esteri. Ha delegazioni in tutto il mondo. Potrebbe essere fonte di risparmi, sia in sedi che in personale. Le sedi: ci sono ambasciate che potrebbero diventare europee, accorpando gli Stati Ue in un’unica entità, almeno nei Paesi dove l’Italia non ha grossi interessi da difendere.

Vedi Malta: solo 1.800 nostri residenti e rapporti privilegiati con il Regno Unito. La residenza italiana, proprietà dello Stato, è una villa inizio ‘900 in riva al mare. Valore? Circa 5 milioni di euro. I diplomatici: dal 2011 ne sono stati assunti 99, in deroga al blocco deciso precedentemente. In teoria, il Seae doveva assorbire o loro o colleghi più esperti, bilanciando i nuovi ingressi. Al momento, in carico al Seae ne risulta una dozzina. Mancato risparmio: 100 milioni. In arrivo, con nuovo concorso, altre 35 assunzioni.

Altri spazi — e altri costi che potrebbero essere in parte riassorbiti utilizzando i vuoti del ministero — si aggiungono attraversando piazzale della Farnesina. Qui sorge la cosiddetta “palazzina ex Civis”. La nuova Agenzia della Cooperazione dovrebbe sistemarsi lì, mentre nel ministero resta in funzione la sua Direzione generale. L’”ex Civis” sarà ristrutturata. Ipotesi di costo: 2.120.000 euro. L’organico dovrebbe essere di 202 dipendenti. Ma perché non possono unirsi agli altri, dentro al ministero?

Altri possibili risparmi si scoprono nel centro di Roma. Due gli esempi: palazzo Borromeo e palazzo Odescalchi. Il primo, in viale Belle Arti 2, fu costruito da Pirro Ligorio, grande architetto del Rinascimento, per papa Pio IV. Valore oltre ogni stima — e costi di manutenzione notevoli. Acquistato dallo Stato dopo i Patti lateranensi del 1929, è da allora l’ambasciata italiana presso la Santa Sede. Con l’ambasciatore, lì residente, lavorano tre diplomatici e 17 dipendenti. Godono tutti di Indennità di sede estera (Ise) proporzionata al ruolo.

Palazzo Odescalchi è in piazza Margana 19, nell’ex Ghetto, fra le zone più costose di Roma: un appartamento del demanio di circa 200 metri quadrati è la sede dell’ambasciata italiana presso l’Onu, con un ambasciatore, un vice, un aggiunto e 11 impiegati. Tutti dotati di indennità.

Il ministro Federica Mogherini ha già annunciato 108 milioni di euro di risparmi in tre anni, con tagli alle sedi, razionalizzazioni immobiliari e revisione del trattamento economico di chi lavora all’estero. «Come è evidente – spiega ora razionalizzare una macchina così complessa, senza intaccarne l’efficacia ma anzi rendendola più efficiente, implica una profonda ristrutturazione della spesa e del modo di lavorare della nostra diplomazia. Impegno complesso, che portiamo avanti con determinazione».

E per capire quanto c’è da fare, basta tornare fra i meandri della Farnesina, dove «una decina di diplomatici in pensione ha stanza, telefono, computer e spesso segretaria a disposizione», mentre le “sezioni” ministeriali che possono essere guidate da amministrativi (33mila euro l’anno minimi), sono invece guidate anche da diplomatici: costo annuo minimo, 64 mila euro.

E ci sono i 5 consulenti, pensionati, richiamati per il Semestre italiano alla Ue iniziato in luglio: loro però sono stipendiati da gennaio. Più un architetto. Costo totale: 255 mila euro. Il più pagato è l’ambasciatore a riposo Leonardo Visconti di Modrone: 90mila euro per «predisposizione logistica».

È come se l’Italia non potesse proprio fare a meno, anche in anni di crisi, di una sua peculiare vocazione alla grandeur. Ce lo ricorda il cantiere per «la sala stampa più grande d’Italia», aperto in epoca berlusconiana accanto alla Farnesina, dove un’ampia zona è chiusa dagli ondulati dei lavori in corso. Che però sono passati in carico al ministero delle Infrastrutture e vanno avanti a singhiozzo: dopo mesi di fermo, sono ripartiti da poche settimane. A pochi metri dalle stanze vuote.