I veri cancri dell’Italia

Di Edoardo Narduzzi per Il Foglio

E se l’Italia fosse già diventata un semplice mercato, una country, una semplice linea di affari nel bilancio consolidato di una multinazionale di successo nel mercato globale? Mentre proseguono le inutili polemiche post acquisizione della Indesit da parte della Whirlpool con le solite grida di “Al lupo! Al lupo!” per segnalare il pericolo di un made in Italy sotto attacco da parte dei predatori internazionali, si registrano altre fughe dal Belpaese di multinazionali macina utili.

L’italianissima Gtech, un tempo Lottomatica, ha appena concluso l’offerta sull’americana Igt, leader mondiale dei casinò e nel social gaming, per 4,6 miliardi. Ne nasce il gruppo più importante del pianeta nel settore del gioco, anche di quello digitale. Contestualmente all’acquisto Gtech ha annunciato che sposterà la sede fiscale del gruppo dall’Italia a Londra e che procederà al delisting del titolo da Piazza Affari.

Qualche mese prima era stata la Fiat di Sergio Marchionne a muovere la sede fiscale del nuovo gruppo nato dalla fusione con Chrysler, Fca, a Londra e quella legale in Olanda. I commentatori banali si fermerebbero a evidenziare il solo shopping fiscale come ragione prevalente, se non unica, della fuga dall’Italia. La realtà, purtroppo, è ben più negativa per l’Italia, e il motivo fiscale è solo uno dei tanti.

Certo, l’Irap che esiste e si paga solo in Italia e che è incomprensibile alla totalità dei manager internazionali nelle sue logiche di calcolo e nella sua peculiare base imponibile, che ne fa una patrimoniale sulle imprese, non aiuta a trattenere le multinazionali. Certo, il tax rate fino a 10 punti più alto di quello che offre il Regno Unito di David Cameron, che ha per ben due volte ha ridotto l’aliquota sugli utili societari, è una sirena alla quale è difficile resistere. Certo, il cuneo fiscale più alto perfino di quello tedesco non può non fare da acceleratore della fuga.

Ma, se l’Italia avesse una Pubblica amministrazione degna nella sua qualità media e nei suoi meccanismi di funzionamento dell’Eurozona, gran parte dei problemi fiscali potrebbe essere gestiti.

Le multinazionali di successo scappano da un paese con una giustizia civile da quinto mondo e con un macchina burocratica pensata per essere un postificio, un atipico strumento di politica occupazionale keynesiana capace solo di scavare buche laddove strade e ponti non saranno mai costruiti.

La Pa italiana non garantisce i servizi essenziali per le multinazionali contemporanee in termini di qualità media e tempi di lavorazione e le nostre multinazionali fanno shopping burocratico all’interno della Ue.

Eppoi, le multinazionali italiane di successo scappano anche da un mercato dei capitali periferico e da un sistema bancario nel quale il credito è non solo rarefatto, ma anche senza grandi protagonisti internazionali in grado di accompagnare il business dall’America alla Cina, dalla Russia al Canada.

Gtech in qualche modo è l’idealtipo del made in Italy di successo nell’high tech. Apparentemente è una società che fa business con lotterie e gratta&vinci, nella realtà una formidabile Amazon del gioco digitale capace di anticipare i megatrend mondiali del settore.

In parte grazie alla deregolamentazione del comparto dei giochi adottata nel passato dall’Italia (liberalizzare fa sempre bene e produce crescita e sviluppo, ndr), in parte grazie a un management di ottima qualità, negli anni Lottomatica ha saputo costruire delle piattaforme proprietarie per gestire i suoi tanti giochi e capire che le stesse potevano facilmente diventare degli erogatori di servizi nei vari mercati della globalizzazione.

L’evoluzione della tecnologia nella direzione del cloud e delle app ha consacrato questa visione di business. Gtech e Fca che fanno rotta all’estero segnalano quanto sia concretamente difficile fare business per una multinazionale che oggi si presenta sui mercati internazionali a raccogliere capitali con base in Italia e strategia operativa a livello globale.

Gli azionisti, in primis quelli istituzionali operativi nei vari continenti, non amano avere in portafoglio titoli o azioni made in Italy. Su questi titoli, stante la comprovata atipicità italica, chiedono un premio per il rischio aggiuntivo per investire. Premio che non ha senso pagare e che nessuna multinazionale che vuole essere davvero competitiva si può permettere di pagare.

Ecco spiegato perché, mentre a Palazzo Chigi vengono presentate e illustrate le dettagliate slide che spiegano le molte riforme di cui l’Italia ha bisogno, i ritardi accumulati nel passato spingono alla delocalizzazione le nostre migliori multinazionali. Ovviamente, la colpa non è del bravo e determinato premier che è arrivato al governo da soli quattro mesi. Ma è altrettanto ovvio che di tempo Matteo Renzi non ne può più guadagnare: o riforma per davvero e rapidamente oppure si ritrova a governare un paese condannato a crescere dello zero virgola ogni anno.