Il fisco accende le lucciole. Lo stato che tollera e incassa

di Francesco Nardi

Le tasse non risparmiano neanche il mestiere più vecchio del mondo. Il fisco non fa sconti e dove c’è reddito deve necessariamente anche esserci gettito. Il principio è sacrosanto, ma certamente stride se applicato a una professione che non è riconosciuta in alcun modo.
A riportare luce sull’argomento è stata la Commissione tributaria regionale della Liguria, ovvero il corrispondente della Corte d’appello in materia di controversie con l’amministrazione finanziaria, che ha confermato la precedente decisione di primo grado secondo cui una escort deve pagare le tasse su quanto percepisce attraverso la sua attività, anche se è praticata in modo non occasionale.
Alla sentenza si è giunti in seguito alle indagini dell’Agenzia delle enetrate che ha riscontrato quanto fossero sproporzionati i redditi denunciati da una donna di nazionalità rumena rispetto alla mole dei suoi movimenti bancari. Nel mirino sono dunque finiti versamenti in contanti e bonifici che hanno dimostrato l’esistenza di un’attività professionale i cui profitti sfuggivano alla morsa fiscale.

Il paradosso
Il caso non è comunque isolato: sono molti infatti i precedenti che riferiscono di salatissime cartelle esattoriali recapitate a non meglio specificate generatrici di reddito, tutte però assolutamente non inquadrabili – dato il genere della loro attività – in alcuna categoria professionale.
Un paradosso più volte notato e cui l’Aduc ha dedicato particolare attenzione mettendone in risalto, in tempi non sospetti, tutte le plateali contraddizioni che descrivono lo Stato come uno sfruttatore, laddove estorce balzelli per i proventi di un’attività che non riconosce e per di più senza corrispondere alcun tipo di tutela per coloro che a quanto pare, quando conviene, non esita a definire lavoratrici.

La mole d’affari
Non è comunque un caso che gli agenti del fisco siano interessati a intercettare i redditi delle prostitute. In Italia si stima ne siano attive, infatti, ben settantamila per un giro d’affari che si aggira intorno al miliardo di euro l’anno. Si capisce bene quindi che se tale mole di denaro potesse essere interamente tassato il gettito sarebbe più che significativo.
Si tratta però di un bacino fiscale solo potenziale perché gran parte del mercato della prostituzione è “protetto” dalla malavita che taglieggia molte sventurate ragazze costriggendole a prostituirsi e ne intercetta interamente il profitto, rendendolo intracciabile.
Ed è qui che il caso diventa politico, perché è da quando l’Italia smise di “tollerare”, con la legge Merlin, che da più parti si pone il problema della regolarizzazione della prostituzione.
I più attivi su questo fronte, come spesso accade quando si tratta di diritti, sono stati i radicali, che nella scorsa legislatura si sono occupati della questione attraverso interrogazioni e disegni di legge.
Ed è infatti agli ex senatori Poretti e Perduca che si deve l’ultimo tentativo di intervenire sulla materia.
Tuttavia l’argomento è rimasto imbrigliato nelle trame dell’attualità, tutta concentrata sulle vicende private di Berlusconi, intorno alle quali si è a lungo dibattuto, perdendo però di vista l’aspetto principale: ovvero il fatto che un’attività praticata su larga scala, molto spesso al di fuori di qualsiasi costrizione, continua a essere condannata alla clandestinità.

Il pugno duro
L’ultima sentenza della Commissione tributaria regionale della Liguria evidenzia ancora una volta come sia impossibile continuare a sostenere una tale contraddizione, per la quale si possano tassare, come “vari” i redditi che provengono dall’esercizio di una professione non riconosciuta.
Una contraddizione che obbliga il legislatore a prendere in considerazione il tema e che suggerisce alla politica l’opportunità di non fermarsi all’aspetto, sia pur rilevante, dell’ordine pubblico che vi è collegato.
Pe rfare un esempio, il viceministro delle Infrastrutture e sindaco di Salerno, De Luca, ha da poco emanato una nuova ordinanza che vieta la prostituzione sul territorio comunale.
Comprensibile. Resta però da vedere cosa ne pensa la locale agenzia delle Entrate.

@coconardi