Il mondo appeso all’Iran. Sul nucleare nessuno stop

Valentino Laureti

Senza dubbio il prossimo 14 giugno tutti i riflettori mondiali saranno puntati sull’Iran ed il primo turno delle elezioni presidenziali, eventuale ballottaggio tra i due candidati più votati due settimane più tardi.
Dopo 8 anni di presidenza Ahmadinejad che hanno allontanato Teheran dall’Occidente e rinforzato i rapporti con paesi come Russia e Venezuela il mondo guarda con attenzione a questa tornata elettorale. La speranza è che possa essere l’inizio di nuovi rapporti con il paese del Golfo, anche se in merito al grande pomo della discordia, ovvero il programma nucleare iraniano, sarà confermato da qualsiasi nuovo presidente. Tra i candidati non ci sarà il presidente uscente, la Costituzione vieta la possibilità di ricoprire più di due mandati consecutivi, e nemmeno Esfandiar Rahim Mashaei consuocero e a detta di molti erede designato dell’ex sindaco di Teheran, la cui candidatura non è stata accettata dal Consiglio dei Guardiani chiamato a vigilare sulla regolarità delle elezioni.

Sette i candidati in corsa dopo che lunedì 10 giugno Gholam Ali Haddad Adel, suocero di Khamenei, attuale Guida suprema del Paese, ha annunciato il suo ritiro nella tentativo di non disperdere troppo i voti dei conservatori, anche se mai come questa volta la vittoria per i riformisti appare un miraggio. Il duello appare ristretto tra conservatori ed ultra conservatori.
Comunque c’è molta incertezza intorno al nome del possibile successore di Ahmadinejad, con la sfida che sembra ristretta ad appena tre candidati Baqer Qalibaf, attuale sindaco di Teheran, Ali Akbar Velayati, già ministro degli Esteri e attuale Consigliere per gli affari internazionali dell’Ayatollah, e Saeed Jalili, capo negoziatore per il nucleare e presidente del Consiglio supremo per la sicurezza nazionale, nome gradito anche in varie cancellerie europee, sebbene da molti sia considerato troppo conservatore. Poche o nulle le possibilità per gli altri candidati conservatori Mohammad Gharazi, ex ministro del Petrolio, e Mohsen Rezai, presenza pressoché costante, ma inutile, alle elezioni presidenziali. Per i due esponenti riformisti, accusati da molti di essere troppo vicini agli Usa, Mohammed Reza Aref, già vicepresidente sotto Khatami e Hasan Rowhani, religioso moderato, pochissime le possibilità di arrivare anche solo al ballottaggio. Come detto il mondo osserva attentamente con la speranza che non si ripetano i disordini e le violenze del 2009, quando dopo la vittoria di Ahmadinejad, ci fu il fenomeno di protesta popolare passato alla storia con il nome di Onda verde.

Rispetto a quattro anni fa però la situazione appare più complessa. Gli uffici diplomatici hanno concesso pochissimi visti ai giornalisti, con la maggior parte delle notizie che quindi arriverà direttamente da fonti governative, inoltre vari Servizi occidentali hanno riferito che governo e Guida suprema avrebbero applicato il regime di carcerazione preventiva a vari oppositori onde togliere ai manifestanti i loro leader più rappresentativi. A preoccupare il ministero degli Interni iraniano ci sarebbero i giovani; tra le nuove generazioni, riferiscono vari dispacci di intelligence occidentali, ampia sarebbe la fetta di coloro che si definisco critici verso i principi fondamentali della Repubblica islamica, in particolare poco graditi sarebbero i vasti poteri dell’oligarchia religiosa che a dispetto di quanto sarebbe stato nelle intenzioni di Khomeyni e della sua rivoluzione avrebbe con il passare del tempo acquisito poteri sempre maggiori a scapito della piena legittimazione popolare del governo. Costituzione alla mano infatti il Presidente iraniano ha poteri molto simili a quello italiano, in più ha la piena e diretta responsabilità della programmazione economica e finanziaria. Chi detiene realmente il potere in riva al Golfo Persico è la Guida suprema che ha, tra le altre, la prerogativa di determinare le politiche generali del Paese, quella di comandare le Forze dell’ordine, le Forze armate e di dichiarare lo Stato di guerra.
Venerdì quindi primo turno per l’elezioni di un presidente dai poteri molto limitati che per i prossimi quattro anni dovrà rispondere alla guida religiosa del Paese.