Il Punto di Mauro Masi. Internet ci rende più stupidi? Ora anche Facebook e Instagram pensano di limitare l’accesso temporale degli utenti

Nel maggio 2015 pubblicai con Class Editori un libretto dal titolo “Internet ci rende più stupidi?” la cui tesi principale era che un eccesso di esposizione alla Rete era in grado di modificare nel profondo i comportamenti degli utenti in maniera negativa e forse irreversibile. Una tesi all’epoca già molto diffusa negli Stati Uniti e in qualche Paese europeo (in primis, Francia) ma piuttosto originale da noi. Sono passati poco più di tre anni ed ora, pochi giorni fa, gli stessi Facebook ed Instagram annunciano l’arrivo di nuovi strumenti per i loro utenti volti a porre limiti temporali invalicabili all’accesso giornaliero alle loro piattaforme. Queste iniziative fanno immediatamente seguito alla diffusione da parte di Google dell’applicazione Digital Wellbeing il cui obbiettivo ufficiale è quello di “migliorare il rapporto con la tecnologia aiutando ad evitare eccessi che possano manifestarsi con l’uso incontrollato di applicazioni e/o giochi e con la fruizione troppo prolungata di contenuti multimediali”. E’ in qualche modo una clamorosa “ rivoluzione culturale” in quanto sono ora le stesse Over The Top che sino ad oggi hanno favorito in tutti i modi l’accesso alle loro piattaforme a suggerire che un eccesso di Internet è qualcosa di indesiderabile e, al limite, malsano. Sappiamo bene che gran parte degli accessi ora avviene attraverso gli smartphone e qui i dati sono davvero impressionanti: secondo uno studio della società di ricerca Dscount noi tutti tocchiamo il nostro I-phone in media 2,617 volte al giorno;  controlliamo notizie, messaggi, telefonate almeno 150 volte al giorno; e, secondo Apple, gli utenti sbloccano i loro cellulari in media almeno 80 volte al giorno. Sarà davvero difficile tornare indietro.

Aretha Franklin, morta lo scorso 16 agosto, non è stata solo una straordinaria cantante ma anche, forse involontariamente, un simbolo della lotta agli artisti esecutori per la tutela dei propri diritti. Lo ha fatto attraverso la sua canzone  più nota “Respect” nel senso che, per un aspetto molto discusso della legge sul copyright negli USA, ogni volta che il brano veniva trasmesso in qualche radio ( ed è stato per anni in testa a questa speciale classifica) venivano pagati diritti solo agli autori e agli editori e non all’esecutrice. “Respect” fu scritta da Otis Redding ma non ebbe con lui particolare successo finché  Aretha non la adattò ad una donna (girandone completamente il significato, è la donna che chiede rispetto al proprio patner) e la portò ad un successo clamoroso con gran parte dei proventi che però andavano alla Fondazione Otis Redding ( che morì nel 1967 in un incidente aereo). La normativa USA sul copyright è stata cambiata in questo aspetto solo nel 2014 con una legge che è stata chiamata “Respect Act” proprio in onore della canzone incisa da Aretha nel 1967. Una vera fuoriclasse; anche in questo.