Inglesi al voto anticipato, lezione di democrazia anche all’Italia. Londra ci insegna che si può rottamare sul serio

Londra ci dà una lezione. Di fronte alla necessità di fare le vere riforme, non i Jobs Act dall’accattivante nome inglese e deludente risultato italiano

Dio salvi la regina. E mentre ci siamo, anche la Brexit. Proprio per realizzare la più importante riforma dai tempi di Margaret Thatcher – una riforma che ha già dalla sua il mandato popolare di un referendum – la premier conservatrice Theresa May ha proposto a sorpresa di portare il Regno Unito alle elezioni anticipate, l’8 giugno prossimo. Un tuffo acrobatico per un leader politico che finora si era sempre detto contrario alle urne prima del tempo, tra l’altro infilando Londra in mezzo alle delicate tornate elettorali di Parigi (domenica prossima) e Berlino (in autunno). Una scelta insidiosa e non priva di rischi in un Paese dove il precedente governo saldamente in mano a David Cameron si è schiantato su un voto non obbligatorio. Nessuno infatti imponeva a Downing Street il referendum per uscire dall’Unione europea, un passaggio che Cameron immaginava di trasformare nel suo personale trionfo e che invece gli è costato la fine della carriera politica. Una storia simile l’abbiamo vista in Italia con il referendum sulle riforme costituzionali di Renzi, per quanto con la differenza che il voto da noi era obbligatorio.

Ma ora sull’Italia e sulla lezione inglese anche a Renzi ci arriviamo. Ricordiamo prima solo i motivi strategici per cui Cameron si sottopose al rischio del referendum e adesso la May mette in gioco la carica di primo ministro. Nel primo caso l’allora capo dell’Esecutivo usò le urne come una pistola puntata contemporaneamente su Bruxelles e sull’opposizione nazionalista dell’Ukip, che gli rosicchiava consensi a destra. Così, con lo spauracchio della Brexit il governo inglese riuscì a ottenere dalla Commissione europea privilegi senza precedenti, mentre solo concedendo il voto Cameron svuotava di uno dei temi più forti la formazione di Nigel Farage. Forte delle concessioni economiche ottenute in Europa, l’allora premier pensava di ipotecare il suo potere per chissà quanto, replicando magari le sorti di Tony Blair.

Coerenza, merce rara – Finita come sappiamo, Cameron ha lasciato Downing Street in poche ore, perché in un Paese serio che è sfiduciato dal giudizio popolare trae le conseguenze e non si nasconde dietro governi fotocopia o, peggio, fantoccio. Anche la May si è fatta i suoi bei calcoli. Da una parte sa che tutte le opposizioni spareranno ogni artiglieria da qui al giorno dell’effettiva uscita dall’Unione europea, e dall’altra ha i sondaggi dalla sua parte come non accadeva da anni. Mentre oggi la sua maggioranza può contare su un piccolo margine di deputati, circa 12 seggi, se i sondaggi stavolta ci prendono, la maggioranza potrebbe guadagnare fino a cento parlamentari in più, mettendo in cassaforte il futuro della stessa Brexit e della May. Londra ci dà così una lezione importante. Di fronte alla necessità di fare le vere riforme, non i Jobs Act dall’accattivante nome in inglese e il deludente risultato italiano, i governi devono essere forti e sostenuti da un mandato popolare. A costo di perdere le elezioni e di chiudere (almeno per un periodo sul serio) le carriere politiche. Esattamente il contrario di quanto accade qui da noi. In Italia il governo Renzi ha perso male la sua partita sul referendum costituzionale. I motivi per cui ha perso sono tanti e in questa sede non c’è spazio per analizzarli ancora, ma dopo quel risultato la classe dirigente di un Paese serio avrebbe potuto solo prendere atto della decisione popolare e come promesso dallo stesso premier andare a casa. Invece non è stato così. A Renzi è succeduto uno scialbo Gentiloni, ex democristiano garantito da un Presidente della Repubblica democristiano come Sergio Mattarella, messo li a occupare Palazzo Chigi in nome e per conto dell’ex sindaco di Firenze. Senza la minima autonomia, come si è visto nella nomina dei sottosegretari (Gentiloni non ha potuto indicarne neppure uno, compreso l’amico Ermete Realacci) e dei manager delle aziende partecipate dallo Stato. Formalmente le nomine erano al Tesoro ma tutti sanno che a decidere è stato solo Renzi, formalmente un privato cittadino perché in atto neppure più segretario del Pd. In un sussulto di dignità lo stesso Renzi in un primo momento aveva preteso il voto, ma con un esito tanto incerto l’attuale situazione si è rivelata comoda. E pazienza che non c’è modo di fare riforme vere. Mica siamo inglesi. Qui prima che governare serve tenersi le poltrone.