La pitonessa e il rottamatore, attenti a quei due guastatori

di Vittorio Pezzuto

Ricordate la sigla di “Attenti a quei due”, la serie tv dei primi anni Settanta con Roger Moore e Tony Curtis? Andrebbero accompagnate con la stessa musica le sequenze in parallelo delle foto di Matteo Renzi e Daniela Santanchè, ritratti dall’adolescenza della militanza fino alla piena maturità delle loro carriere politiche.
Protagonisti delle burrasche interne ai loro partiti, condividono infatti la medesima intuizione: colmare l’assenza di riforme con la proposizione ossessiva delle loro dichiarazioni. Parlare schietto, senza inciampi, scandendo propositi futuri è infatti un’arma micidiale per sbaragliare la concorrenza del nulla. Renzi e Santanché ci appaiono come l’incarnazione riuscita del moto perpetuo nel teatrino della politica. Efficacissimi comunicatori, ribattono colpo su colpo e ostentano una determinazione implacabile che confonde gli avversari. In un mondo nel quale il “come” conta decisamente più del “che cosa”, abbacinano la platea con abili piroette: Renzi dice di voler diventare segretario del Pd ma in realtà ambisce a diventare il più giovane premier eletto; Santanchè difende caparbia la candidatura a vice presidente della Camera ma è pronta al sacrificio del ritiro pur di incassare la leadership della nuova Forza Italia. Sono uniti entrambi da un unico destino: cadere col botto oppure impersonare le convergenze parallele della Terza Repubblica. Per rendersene conto è sufficiente andarsi a ripassare le loro ultime dichiarazioni.

Il sindaco di Firenze fissa la telecamera con sguardo offeso, smentisce di essere un bimbo capriccioso che vuole a tutti i costi la caramella della leadership democratica, gioca la carta del vittimismo che avvampa in tutti i provinciali («I capicorrente romani prediligono lo sport del tiro al piccione»), relativizza ad arte le sue pur legittime ambizioni («Spero che nessuno da piccolo sogni di fare il segretario di un partito. Io sognavo di fare il camionista») e minaccia gigione di indossare i panni del giovane Cincinnato («Mai stato così tentato di non candidarmi») ben sapendo che anche i suoi nemici interni hanno bisogno di lui per restare a galla nei sondaggi. Tiene alta la tensione su di sé, stringe e rompe alleanze, e intanto strappa nervoso i fogli del calendario confidando che prima o poi la sorte gli regali la caduta del fragile governo Letta.
La pasionaria berlusconiana esibisce invece un tosto pragmatismo piemontese, cerca lo scontro e non lesina all’occorrenza sapide alzate del dito medio. Interpreta senza affettazione il ruolo di Sarah Palin de noantri e accetta grata ogni appellativo che ne esalti l’inesausta combattività: “falco”, “pitonessa”, “mastino”. Ti osserva dal teleschermo con una calma minacciosa. Scandisce lenta le frasi ma si capisce che verrebbe volentieri alle mani con avversari e indecisi. Compita slogan da battaglia e nel frattempo ti aggiorna sulla posizione ufficiale del partito (quasi mai concordata con i suoi sodali). Si è infatti definitivamente appropriata del ruolo di vestale del sacro fuoco di Arcore e per riuscire nell’impresa ha fatto affidamento su una sempiterna qualità degli italiani: la smemoratezza. Nessuno ricorda ormai le bordate esplose contro Berlusconi nella campagna elettorale del 2008, quando guidava la zattera storaciana de La Destra (si era avvicinata ad An in quanto forza non nostalgica del fascismo per poi mollare Fini perché vassallo troppo liberale del Cav). Erano i tempi in cui spiegava che «Berlusconi non ha rispetto per le donne, lo dimostra la sua vita giorno dopo giorno», che «lui le donne le usa come manichini nelle sue vetrine», che «non è più credibile» e che «gradirebbe molto avermi con lui. Il problema è che io non sono in vendita. Non tutto si può comprare». Silvio l’ha perdonata, gratuitamente.