L’amico di Trump e Intesa. Tutti nell’affare Russiagate. Indagine sui rapporti tra Carter Page e Rosneft, con la vendita finanziata dalla banca italiana

L'amico di Trump e Intesa. Tutti nell'affare Russiagate. Indagine sui rapporti tra Carter Page e Rosneft, con la vendita finanziata dalla banca italiana

Una posizione non proprio comoda, a metà strada tra il Russiagate e il Qatar, Emirato al centro dell’attuale crisi del Golfo. Crocevia di alcune operazioni misteriose, certo non da oggi, è Intesa Sanpaolo. Ma stavolta dagli Stati Uniti spunta fuori un nome che è in grado di mettere in ulteriore imbarazzo l’istituto di credito guidato da Carlo Messina. Il nome è quello di Carter Page, ex consulente di politica estera di Donald Trump. Tra gli scoop sul Russiagate messi a segno nell’ultimo week end dal Washington Post, che ha svelato l’indagine del super procuratore Robert Mueller a carico del presidente Usa, c’è anche la notizia di accertamenti in corso proprio su Page e i suoi affari russi. Attenzione al nome. Non è la prima volta che il personaggio assurge agli onori della cronaca.

Il precedente – Si dà infatti il caso che Page fosse già finito nel famoso “dossier Trump”, il report stilato da un ex 007 inglese che dimostrerebbe contatti tra i sodali di The Donald e l’amministrazione russa prima dell’elezione del presidente a stelle e strisce. Come ricordato da La Notizia del 3 marzo del 2017, a pagina 30 di quel dossier si fa riferimento ai contorni di un’operazione finanziaria monstre: la cessione da parte dello Stato russo del 19,5% del colosso petrolifero Rosneft, presieduto dal magnate Igor Sechin. Entrambi, Rosneft e Sechin, colpiti dalle sanzioni Usa. In quella pagina 30 del dossier Trump c’è scritto  che “il presidente di Rosneft desiderava che venissero cancellate le sanzioni contro di lui e la società petrolifera, a tal punto da offrire ai sodali di Page e Trump l’intermediazione di più del 19% di Rosneft”. Page, dal canto suo, “aveva espresso interesse confermando che se Trump fosse stato eletto le sanzioni sarebbero state cancellate”. Un’accusa pesantissima, ma tutta da dimostrare, nei confronti dell’ex collaboratore di Trump. Naturalmente all’epoca venne bollata dall’amministrazione Usa come frutto della più totale e calunniosa fantasia. Adesso però la storia rispunta fuori dopo la scoop del Washington Post, che ha riesumato il nome di Page rendendolo bersaglio di accertamenti in corso da parte del super procuratore Mueller. E Intesa che c’entra?

L’aiuto italiano – In Italia la questione non è stata molto trattata dai giornali. Eppure la notizia, apparsa a gennaio, sarebbe dovuta apparire subito enorme. La banca nostrana, infatti, ha erogato un finanziamento di 5,2 miliardi di euro ai compratori di quel 19,5% di Rosneft, complessivamente valutato 10,2 miliardi di euro. E quali sono questi compratori? Il colosso minerario anglo-svizzero Glencore e Qia, il fondo sovrano del Qatar. Dettaglio, quest’ultimo, che letto alla luce degli accadimenti odierni rappresenta di per sé una notizia: Intesa ha prestato soldi al ricchissimo fondo sovrano del Qatar, Emirato che ora è stato isolato dagli altri paesi del Golfo con l’accusa di supportare il terrorismo. Ma il mistero che circonda la decisione di Intesa era già stato alimentato da diversi articoli della stampa estera, soprattutto britannica. Il 18 gennaio del 2017 il Financial Times aveva svelato che in prima battuta a finanziare l’acquisto della quota di Rosneft era stata la banca russa Vtb, anch’essa sotto sanzioni. E aveva fatto balenare il sospetto che quell’operazione, in cui era citata Intesa, fosse una finta privatizzazione.

I dubbi – Il 25 gennaio 2017 era stata la volta dell’Agenzia Reuters, in un articolo dall’eloquente titolo “Come la Russia ha venduto il suo gioiello petrolifero: senza dire chi lo ha comprato”. All’interno dell’articolo la Reuters spiegava che i soldi di Intesa erano finiti a una joint venture tra Glencore e Qia con sede a Singapore, la QHG Shares, la cui proprietà  “in ultima analisi vede coinvolta anche una società delle Isole Cayman, i cui beneficiari non possono essere tracciati”. L’agenzia britannica citava i pubblici registri, con ciò allargando ancora di più il mistero sui reali destinatari del prestito erogato da Intesa. Da ultimo è tornato sull’argomento il Wall Street Journal dello scorso 8 giugno, il quale ha sollevato un altro sospetto, che avrebbe del clamoroso se non si ricollegasse indirettamente ai dubbi già avanzati dal Financial Times. Il Wsj ipotizza l’esistenza di un accordo di “buy back” tra Stato russo e la joint venture tra Glencore e Qia, in base al quale la quota di Rosneft appena ceduta potrebbe essere ricomprata da Mosca. Il quotidiano economico cita fonti informate sui fatti, anche se dà conto della secca smentita di Glencore e Qia.

Altri dettagli – In più la testata rialimenta i dubbi di una finta privatizzazione partendo dai 10,2 miliardi di euro di prezzo di cessione del 19,5% di Rosneft: di questi, 2,5 miliardi sono stati messi sul piatto da Qia, 300 milioni da Glencore e 5,2 miliardi da Intesa. All’appello, allora, mancano 2,2 miliardi, che secondo il Wsj sarebbero stati elargiti da banche russe. Infine, in un’incredibile sequenza di rivelazioni, il giornale dice che nel frattempo Intesa avrebbe cercato di garantirsi il prestito coinvolgendo altre banche, senza trovarle. Insomma, un ginepraio. Intesa ha sempre detto che ha agito secondo le regole, ma di più non può dire per le clausole di “confidentiality”.

Tw: @SSansonetti