Le terre dove sbarcò Enea, devastate dagli abusi edilizi. Da Ostia ad Anzio, il litorale laziale è deturpato. Neppure una targa ricorda gli antichi miti

di Lidia Lombardi

Il solleone ha appena riempito la spiaggia di gente e caciara. Racchettoni, tatuaggi, vu’ cumprà, le macchine parcheggiate sulla litoranea Ostia Anzio, le case, casette, villette, pergole – tutto l’armamentario del boom edilizio anni Sessanta dileggiato da Gonzalo Pirobutirro nella gaddiana “Cognizione del dolore”. Insomma, è risorto il bailamme estivo del litorale alle porte della capitale, quella striscia di spiaggia deturpata dal cemento e una volta solcata tutta da dune e da macchia mediterranea. Torvajanica, Ardea, Lido dei Pini, un territorio ferito. Messo a morte, perché è stata messa a morte la memoria di questi posti dove alita il mito fondativo di Roma Antica. A Pratica di Mare, l’antica Lavinium, sbarcò Enea. E adesso i campi di grano attorno a un borghetto medievale, a un Antiquarium e a scavi con 13 altari del VII secolo avanti Cristo sono insidiati da centri commerciali, prolungamento del comune di Pomezia.

Quel che resta della storia
Ma dove il ricordo, la leggenda, la narrazione virgiliana è stata maggiormente tradita è un pezzo di arenile, cento metri resi tanto anonimi e squallidi tanto più sono significativi. Parliamo di Porto Rutulo, in comune di Ardea, a un passo da un “famigerato” residence, Le Salzare, miniappartamenti ora abitati da persone spesso ai margini della legalità, sicché polizia e carabinieri spesso fanno retate, sgomberi, arresti per spaccio di droga e di merce rubata. Ebbene, un corso d’acqua costeggia i campi arsi e sbocca in mare con foce a imbuto. Acqua torbida, dove sguazzano i ragazzini. Ai più sembra un rigagnolo di nessuna importanza. Invece è il fiume “sacro” di Turno, il fiero re dei Rutuli discendente da Danae che si oppose ad Enea, lo straniero venuto dalla Grecia che insidiava la sua terra e la sua promessa sposa, Lavinia. Il fiume si chiama Incastro, da in castrum, nella rocca. È largo una decina di metri e convoglia le acque dei torrentelli provenienti dai Colli Albani, che sono proprio sullo sfondo. Ardea stessa, con la sua rupe di tufo, è una sorta di avamposto delle eruzioni vulcaniche che generarono le alture dell’entroterra. Da queste alture, dal lago di Nemi specialmente, finivano al mare i corsi d’acqua, come vene nel terreno, solchi profondi. S’incanalavano nel Fosso dell’Incastro, che costeggia Ardea. Albano poi fu la mitica Albalonga, fondata da Ascanio, il figlio di Enea. Ancora, la progenie di Ascanio annovera Rea Silvia, la sacerdotessa violata che diede alla luce Romolo e Remo. Pensate che di tutto questo ci sia cenno dove il fiume Incastro si unisce al mare? Manco per niente. Né una targa sulla spiaggia, né sul ponte basso della Litoranea dove camminano le auto dei pendolari che arrivano la domenica con le borse piene di paninozzi e birre. Che ne sanno, che ne sa il grattacheccaro, o il venditore di cocco, che proprio qui, tra le canne che incorniciano le sponde del fiume, si acquattava – e forse ancora si acquatta nel silenzio di marzo – l’airone, l’”ardea cinerea”, simbolo appunto di Ardea, la più antica città del Lazio?

Luoghi dimenticati e inaccessibili
«Quando tutto fu ridotto in cenere, dalle macerie si alzò in volo un uccello. Il suo grido, la sua magrezza, il suo pallore tutto ricorda la città: il suo nome è Ardea», scrive Ovidio nelle Metamorfosi. E se a Turno Virgilio fa gridare in battaglia «la fortuna aiuta gli audaci», dell’airone nelle Georgiche scrive che dalle acque paludose è capace di alzarsi fino ai luoghi più splendenti e «ardui», inaccessibili, del cielo. Ce ne sarebbe da raccontare. Invece a malapena sulla Litoranea un cartello marrone, di quelli che segnalano i siti di interesse culturale, indica i resti del Castrum Inui, lo sbocco al mare dell’Incastro, l’antico Numicus. Porto Rutulo, scavato dalla Sovrintendenza nel 1998, aveva quattro templi e altari, come ricorda Dionisio di Alicarnasso. E poi moli, magazzini, terme, cisterne, pitture, mosaici. Quel che rimane è inaccessibile ai turisti, visibile da lontano attraverso una rete metallica, protetto da una brutta copertura, costeggiato dalle inquietanti “Salzare”. Eppure questi posti stregarono nell’Ottocento il poeta-viaggiatore Charles Didier, nel Novecento Giacomo Manzù e Corrado Govoni che vollero vivere ad Ardea. Ma forse anche di loro ci si ricorda poco. Meglio i racchettoni, le creme solari, la caciara.