Mecenate ci salverà ancora

Di Sergio Patti

Professore Emanuele, finalmente c’è un Governo che riscopre il mecenatismo e ne fa una legge. Lei lo proponeva già molti anni fa…
Sì è vero. È da anni che richiedevo questo provvedimento, di cui ho trattato ampiamente nel mio libro Arte e Finanza, uscito nel 2012 e che in tempi più recenti ho sollecitato in occasione della seconda edizione degli Stati Generali della Cultura, tenutasi lo scorso ottobre a Milano. Adesso, finalmente, la politica ha dato un segnale in controtendenza con l’annuncio del varo, da parte del ministro Franceschini, della legge sul «mecenatismo». Il cuore del pacchetto di misure presentate dal ministro della Cultura è rappresentato dall’artbonus, ossia dall’incentivo fiscale a favore del mecenatismo, costituito da un credito d’imposta, del 65%, per le donazioni dirette a interventi di manutenzione e restauro di beni culturali pubblici, nonché a favore di musei, siti archeologici, biblioteche e teatri pubblici, fondazioni lirico sinfoniche. Per la prima volta si comincia a valutare la cultura come il principale asset competitivo del nostro Paese, così come dice Franceschini definendo il proprio ministero come il più importante ministero economico del nostro Paese. Io concordo e definisco la cultura “l’energia pulita” in grado di riavviare il motore ingolfato della nostra economia.

C’è chi la definisce una sorta di ministro ombra della cultura…
Non mi interessano la definizioni, mi interessa che la politica prenda coscienza dei problemi, e soprattutto delle soluzioni. Non voglio continuare ad essere un suggeritore inascoltato. Da tempo, ad esempio, sostengo che le entrate di musei e siti archeologici devono essere riassegnate integralmente alle strutture che le hanno prodotte. Questa misura era stata già prospettata dalla legge «Valore Cultura» voluta dall’ex ministro Massimo Bray e il decreto Franceschini la perfeziona ulteriormente. Si tratta di una piccola, semplice, ma significativa rivoluzione: prima l’incasso dei ticket d’ingresso e delle royalties pagate dai gestori privati dei servizi aggiuntivi finivano in un fondo unico del ministero dell’Economia e delle Finanze, che ne assegnava una parte al Ministero dei Beni Culturali. Questa parte veniva poi ridistribuita a tutti i musei, secondo criteri piuttosto complessi e tipicamente burocratici. Il ministro ha annunciato che sono già pronti 3,5 milioni di euro della prima tranche, relativa a gennaio-marzo 2014, che saranno ridistribuiti assegnando a ogni museo o sito quanto incassato nel periodo. I soldi saranno trasferiti ogni tre mesi e dovranno essere impiegati per la valorizzazione, la conservazione e la sicurezza del patrimonio. Occorre però introdurre nel sistema veri e propri manager, in grado di valorizzare questo enorme patrimonio. Adesso questa figura vedrà finalmente la luce, affiancandosi a quella del soprintendente. L’auspicio, però, è che questi manager non vengano selezionati in base alle solite, nefaste, logiche clientelari.

Ma perché in Italia serve una legge per spingere i privati a prendersi cura del bello? La grandezza di questo Paese è figlia di grandi mecenati che non hanno certo atteso una norma per investire in cultura…
La legge serve perché, paradossalmente, in un momento in cui lo Stato non ha i mezzi per intervenire, la burocrazia statale impedisce ai privati di farlo. La grande bellezza del nostro Paese è, in buona parte, figlia del mecenatismo, in particolare di quello della Chiesa e delle classi illuminate che spesso gravitavano interno ad essa. Oggi, invece, si considera la cultura come un mero costo, a tal punto che negli ultimi anni il governo ha progressivamente ridotto i trasferimenti al settore, che ammontano ad un misero 0,1 per cento del Pil. Essendo questa la situazione è indispensabile consentire ai privati di intervenire. Lo Stato deve cambiare strategia. Pur rimanendo protagonista, anzi aumentando le risorse dedicate alla cultura, deve consentire una governance che attiri soggetti privati, in particolare il privato sociale, che già in grande misura concorre a sostenere altre aree strategiche e di vitale importanza per il welfare. Come ripeto da tempo, più che di sponsor – sempre bene accetti, s’intende – la cultura ha bisogno di bravi e nuovi operatori economici meglio no-profit/gestori che sappiano elaborare un budget, dirigere un’impresa culturale, curarne il bilancio e la contabilità, individuare fonti supplementari di finanziamento, orientarsi nel mercato internazionale dell’arte. Ma soprattutto devono poter confrontarsi con i soprintendenti e direttori di gallerie, musei ed altri siti culturali, in una dialettica costruttiva ove ognuno faccia la propria parte ed eserciti il proprio ruolo.

La Fondazione Roma che lei presiede è intanto uno dei poli culturali più attivi della Capitale. In questo momento avete due grandi mostre in corso: Hogart, Reynolds, Turner. Pittura inglese verso la modernità a Palazzo Sciarra e Warhol, a Palazzo Cipolla. Il trend di visitatori?
Il nostro museo, nato nel 1999, fino ad oggi ha promosso più di quaranta mostre, raggiungendo il suo scopo originario, ossia quello di offrire alla città di Roma un nuovo polo culturale, attento sia alla storia, alle tradizioni, alle tendenze artistiche degli ultimi decenni. Le due esposizioni in corso, che rappresentano due visioni complementari del Bello, hanno numeri eccellenti e sono l’ultima espressione, in ordine temporale, di questo progetto vincente.

La mostra su Warhol resterà aperta fino a settembre. Uno dei pochi grandi appuntamenti visitabili anche in estate in una città che dovrebbe vivere di turismo, ma poi chiude la cultura per ferie. È accettabile?
Non è accettabile. Non è accettabile che musei e siti culturali, nella città che vanta il più prezioso patrimonio artistico del mondo, restino chiusi per mancanza di fondi. Non è accettabile che la cultura, principale volano del turismo, in estate vada in ferie. Questo rende ancora più urgente il cambio di mentalità e di politiche che vado sostenendo da tempo.

Lei è stato presidente di Palaexpo (Scuderie del Quirinale e Palazzo delle Esposizioni) e consigliere del Teatro dell’Opera, dimettendosi da entrambi in disaccordo con la gestione a monte. Cosa si è sbagliato e cosa si sbaglia ancora nella gestione del patrimonio museale a Roma?
La gestione, sbagliata, del patrimonio culturale a Roma è il paradigma degli errori diffusi su larga scala. Un sistema vittima dei propri pregiudizi e dove ogni modifica dello status quo è vista come una minaccia. Mi sono dimesso dalla presidenza del Palaexpo a causa dell’assurda opposizione alla trasformazione dell’Azienda Speciale Palaexpo in fondazione, cosa che avrebbe non solo consentito una gestione più snella ed efficiente delle risorse, ma anche garantito tempi più rapidi per l’approvazione dei bilanci. Politiche di gestione totalmente sbagliate mi hanno spinto altresì alle dimissioni dal Cda del Teatro dell’Opera di Roma.

Oggi il pubblico ha da temere in una co-gestione dove il privato assume il controllo? Chi alza un muro contro la cosiddetta privatizzazione della cultura, mentre i musei chiudono e i monumenti si degradano, difende un principio che tiene conto della realtà?
La presunta privatizzazione della cultura è solo un slogan, un flatus vocis emesso da chi non conosce, o non vuole conoscere la realtà delle cose. La mia lunga esperienza in questo settore mi ha portato ad una conclusione: il binomio pubblico/privato non funziona e, quando si realizza, è la conseguenza di compromessi burocratici in grado di annullare tutti i potenziali vantaggi. Al contrario, è molto più efficace la sinergia tra privato e privato, soprattutto non profit. In questo modo si procede più rapidamente, perché non si è ostaggi della burocrazia statale e dei suoi interessi. Come detto, la formula dovrebbe essere “meno Stato e più privati”. Il primo si concentra sull’attività di tutela, di regolazione e di controllo. I secondi, invece, gestiscono i siti culturali ed erogano i servizi.

Che altro?
Come auspico da tempo, è necessario introdurre una norma sanzionatoria nell’Articolo 118 della Costituzione, che parla di sussidiarietà, orizzontale e verticale, e spiega come lo Stato debba consentire ai privati di svolgere i propri compiti, quando esso non è in grado di operare per carenza di mezzi. Questa sanzione dovrebbe punire le autorità pubbliche che, in maniera immotivata, impediscono al privato di agire al servizio della collettività.