Protestare online è un affare. Ecco quanto si guadagna. Si moltiplicano i siti che ospitano il dissenso. Un giro miliardario grazie ai dati di chi firma

di Andrea Koveos

Bandiere, fischietto e megafono non vanno più di moda. Ora c’è la petizione online. Per esprimere il proprio dissenso o per appoggiare una giusta causa basta un click, compilare un modulo e la protesta è servita. Ma quanto guadagna chi raccoglie tutte queste informazioni? Centinaia di milioni grazie appunto ai dati che questi siti commercializzano. Change.org è il sito più conosciuto di petizioni online che in Italia a più di un anno dal debutto ha già riscosso un successo notevole: 10 milioni di utenti iscritti e 200 campagne al mese. Nasce nel 2007 a San Francisco ma ormai è attivo in ben 19 paesi. Nella classifica delle petizioni con più sostenitori svettano la richiesta di liberazione per il premio Nobel per la Pace Liu Xiaobo e la moglie Liu Xia, la messa al bando dei pesticidi responsabili della moria delle api e la messa al bando delle pelli di canguro per la realizzazione delle scarpe da calcio Nike.

La politica
I numeri sono importanti: ogni petizione vanta centinaia di migliaia di sostenitori. “Salviamo Report e il diritto di informare” ha ottenuto oltre 120 mila adesioni. Negli ultimi tempi, grazie anche all’esplosione del Movimento 5 stelle sono cresciute le petizioni di carattere politico. Non mancano però le proposte di carattere sociale o ambientalistiche. C’è da dire che la raccolta di firme per iniziative legislative in Italia non è consentita, al momento. Certamente la pratica dell’attivismo via web sarà pratica sempre più diffusa come hanno dimostrato le Quirinarie organizzate da Beppe Grillo per la scelta del candidato alla Presidenza della Repubblica. E analizzando i profili Facebook degli inscritti si scopre che aderiscono non solo giovani ma anche persone più avanti con l’età. Come ha riportato il Post, Change.org non è una società non profit. Incassa una valanga di soldi di soldi rendendo il suo comportamento simile a quello di Google. È una società benefit-profit, cioè una società “interessata al bene comune” che però fa profitti: secondo la responsabile della comunicazione, Charlotte Hill, è “una società che si ispira a una missione sociale, e sebbene abbiamo delle entrate le reinvestiamo al 100 per cento nella nostra missione di dare potere alla gente normale. Abbiamo deciso volontariamente di non fare profitti”. Per farla breve, una società tecnicamente a scopo di lucro che però ha deciso – per il momento, almeno – di reinvestire gli utili provenienti da Change.org nel rafforzamento e nel miglioramento di Change.org. Ma non è sempre così. Ci sono altre società simili che, sempre secondo il Post, hanno scelto di rimanere non profit, come MoveOn o Avaaz, mentre Care2 è strutturato come un social network e già nel 2006 generava profitti per 5,9 milioni di dollari.
Infatti il modello di business è spiegato anche sul sito internet (in Italia è www.change.org/it).

Il business
Molto semplice: le organizzazioni interessate a promuovere le loro campagne o petizioni attraverso la piattaforma Change.org acquistano spazi sotto forma di petizioni sponsorizzate, un metodo simile ai video su YouTube. C’è chiaramente un’etica, non si accettano pubblicità di chi incita all’odio o alla discriminazione sociale e razziale. Sotto il profilo procedurale è bene ricordare che per la verifica delle firme vengono usate le mail (meno dell’1% si rivela fasullo). Qualche giorno fa il sito dell’edizione statunitense di Wired ha pubblicato un’inchiesta di Klint Finley su Change.org, corredata di molti dati. Wired scrive che Change.org gestisce in media più di 25 mila petizioni al mese e i dati di circa 45 milioni di utenti. Ben Rattray, presidente e fondatore del sito, ha detto che il sito è “una piattaforma totalmente aperta che si sta rapidamente diversificando: alcune delle petizioni che ospitiamo sono addirittura in competizione l’una con l’altra”.