Rosy Bindi al Quirinale senza passare dal parrucchiere

di Monica Setta

Ci vuole coraggio ad essere Rosy Bindi e a sentirsi dare ogni due per due della “ brutta ma intelligente”. È vero, forse non piacerai mai agli uomini, ma i cosiddetti “attributi” – anche se non ce li hai di natura – ti vengono attribuiti, scusate il gioco di parole, quasi per legge. Ci vuole coraggio a non farsi rottamare da quel diavoletto toscanaccio di Matteo Renzi che pur di aprire lo sconquasso all’interno della monolitica struttura di partito del Pd, ha mandato al rogo chiunque, D’Alema, i suoi seguaci, incolpevoli come Livia Turco e via dicendo. Il sindaco di Firenze ce l’ha messa tutta per impedire alla Bindi di ricandidarsi, ha agito in maniera subliminale sui punti più fragili della donna facendole capire che era ormai un pezzo d’antiquariato e quando credeva d’aver vinto, ha irrimediabilmente perso. E sì, perché, se la più romantica Livia è rimasta a casa ancora oggi a chiedersi il motivo di un simile “rigetto” da parte dei suoi, Rosy ha combattuto con ogni fibra per non cedere e rimanere beatamente in piedi alla faccia degli invidiosi e di chi le vuole male. Nata a Sinalunga nel 1951, democrista della miglior specie, è stata ministro della Sanità del governo Prodi e dei due governi D’Alema, poi per anni responsabile del welfare nella Margherita quindi ancora titolare del dicastero per le politiche della famiglia nel secondo esecutivo del Professore nel 2006. Dal 2009 Bindi è presidente del Partito democratico e attualmente, lungi dall’essere politicamente defunta, esercita un ruolo strategico sia pure apparentemente passivo nel centro sinistra. Doveva finire sul banchetto del vintage e invece come Glenn Close nel celebre film “Attrazione fatale” è resuscitata dalle ceneri e oggi è più che mai viva, pronta a lottare (da sola) o insieme a noi. Farla fuori è praticamente impossibile, ha sette vite come i gatti, fiuta i nemici come un cane, i tartufi e si adatta a sconfiggerli, uno per uno, con pazienza esemplare oltre che certosina. Amante della buona tavola, spartana fino ai confini con il minimalismo più crudele, è stata accusata da un misterioso report diffuso dai media (riconducibile secondo i rumors allo stesso Renzi) di aver sperperato soldi del partito per sostenere la sua segreteria e l’ufficio stampa. Prima che lei annunciasse la querela, nel Pd ridevano tutti perché Rosy non è mai stata di manica larga, mai. Men che meno con chi lavorava al suo fianco inchiodato alla scrivania a spulciare carte, cifre, documenti. Di lei, lo stesso Romano Prodi diceva che aveva una specie di “cattiveria” . Qualcosa, aggiungo io, di molto simile alla resilienza che, nei manuali di psichiatria, sta a significare la capacità di fronteggiare con successo eventi traumatici di ogni natura. Conosco Rosy da anni e le voglio bene, ha presentato il mio libro “Flavia e le altre” nel 2006 e ha tollerato che mi presentassi con uno sgargiante abito a stampe floreali, lei sempre devota al greige, quella mistura di colore che fonde il grigio topo con il nero pece spegnendo comunque ogni aspirazione alla solarità. È una tipa che in silenzio soffre, tesse e ama. Al momento opportuno sguscia fuori e va in porta. Non mi stupirei se stesse preparando una mossa a sorpresa e ce la ritrovassimo, perchè no? al Quirinale. Prima donna presidente single, a quel punto – bellissima d’ufficio – perché potente. E Rosy non ignora che il potere logora chi non ne ha. Come si dice? La bontà fino alle porte, il potere fino alla morte. Auguri, hai visto mai.