Troppe querele temerarie: è la morte dell’editoria. I poteri forti sfregiano la libertà di stampa. Un modo per tenere in ostaggio le redazioni

Ha aperto il caso Concita De Gregorio. Ma i giornalisti costretti a pagare cause pesantissime solo per aver fatto al meglio il loro lavoro ce ne sono tanti. Il guaio è che non sono di una certa area politica e dunque di questi nessuno se ne occupa. Lo facciamo noi riproponendo alcuni degli articoli scritti da Emiliano Liuzzi (Il Fatto Quotidiano), Franco Bechis (Libero) e Antonio Cipriani (E Polis). Ma nel calderone degli imbavagliati ce ne sono tanti altri. Professionisti che non possono essere lasciati soli.

BECHISBECHIS E I 5 ANNI SENZA UN QUINTO DELLO STIPENDIO
Da quasi sei anni sono a Libero, e di questi ne ho passati 5 con un quinto dello stipendio pignorato per lo stesso motivo. Anche peggio: per un certo periodo ho avuto pure il conto bancario- il solo che ho, e su cui corre lo stipendio- pignorato. Ho raccontato quel che stava accadendo a colleghi e sindacalisti della Federazione nazionale della stampa. Ho raccolto molti “Mi spiace”, altri “Però…”, qualche timido: “ah, non sapevo…”, e sotto-sotto valanghe di “eh… un po’ te la sei cercata, sei sempre così aggressivo con tutti…”. Mi hanno pignorato lo stipendio sia per quel che ho scritto sia per essere stato direttore di testata. La legge dice che si è responsabili in solido giornalista che scrive, direttore responsabile ed editore. Mi hanno pignorato tre volte lo stipendio e uno il conto bancario sia come direttore che come giornalista. In tutti i casi chi ha vinto (causa civile con provvisionale di primo grado) è venuto a chiedermi tutta la somma. Non hanno nemmeno provato a chiederla agli editori, le cui società erano vive e vegete. Da lì in poi cavoli miei. Infatti mi sono dovuto arrangiare : qualcosa (molto) ho pagato, ho cercato trattative con i vecchi editori e con chi mi aveva querelato, qualcosa (poco) ho recuperato. Nessuno mi ha dato una mano, per la Fnsi il caso non è esistito: affari miei. Non una parola dai presidenti delle due Camere, Piero Grasso e Laura Boldrini ora scandalizzati per le querele ai colleghi dell’Unità. Li capisco: chi è venuto a pignorare lo stipendio solo a me, ignorando qualsiasi altro soggetto solidale, si chiama Nichi Vendola, leader del partito che ha candidato la Boldrini. Chi ha fatto la stessa cosa pignorando il mio conto bancario si chiama Giovanna Melandri, già dirigente e ministro di quel Pd che ha portato in Senato Grasso. Così va la vita…
Franco Bechis

ciprianiUNA QUERELA CHE COSTA LA GALERA
Fa un certo effetto aprire una mail e scoprire che contiene un ordine di esecuzione per la carcerazione. Cinque mesi e qualche giorno per aver omesso, come direttore responsabile del quotidiano E Polis, il controllo su un articolo scritto da un giornalista professionista. Questo dice la sentenza del tribunale di Oristano. Cinque mesi da fare in carcere e in subordine – se verranno accolte come spero le richieste della mia difesa – in affidamento in prova al servizio sociale o ai domiciliari. È solo l’ultimo tassello, per ora, di una storia assurda e travagliata che va avanti da quattro anni. Una vicenda che comincia da quando ho diretto E Polis dall’ottobre 2004 al dicembre 2007. Poi mi sono dimesso a seguito di un cambio di proprietà. Nel 2011 E Polis è fallito tra debiti, inchieste, accuse di bancarotta. E questo fallimento ha scaricato sulle spalle dei giornalisti le cause in corso. Trentaquattro processi sulle mie spalle di direttore responsabile. Un’enormità. Trentaquattro processi sparsi in tutt’Italia, perché E Polis usciva e veniva stampato in tutta Italia. Trentaquattro processi senza alcuna difesa e senza alcun aiuto. Dal 2011 il mio impegno professionale è stato: difendermi alla meno peggio, farmi aiutare da avvocati amici, evitare il più possibile condanne, cercare di non pagare tutte le spese giudiziarie. Rateizzare Equitalia. Inseguire gli indulti. Perché ogni processo consta di notifiche per ogni passaggio, quindi di mattinate passate in questura o dai carabinieri, di carte da leggere, di avvocati da nominare, di udienze. Di condanne, più o meno giuste, sulle quali neanche entro nel merito perché si aprirebbe un altro capitolo. Giustizia del pagare. Senza nessun editore alle spalle, senza fondi. Senza niente altro che i risparmi di una vita da mettere sul piatto giudiziario. Per pagare. Pagare sempre. Perché alla fine tutti si riduce a questo. Se hai i soldi paghi, chiudi con un accordo, ed eviti problemi. Se non hai soldi e combatti, alla fine non puoi che perdere. Anche l’ultima condanna, quella assurda al carcere per un omesso controllo (neanche a scomodare il reato d’opinione, cosa che per altro si tratta) è arrivata per la mancanza di soldi. Perché non avevo denaro per pagarmi un avvocato. Così è.
Antonio Cipriani

liuzziNON SOLO CONCITA, ANCHE LIUZZI
Io, modestamente, ho lo stipendio pignorato per lo stesso motivo di Concita. Non mi hanno pignorato la casa perché non la posseggo e perché al Corriere di Livorno – giornale che finì esattamente come L’Unità senza avere quel popò di storia – eravamo terrorizzati dalle cause. Attualmente sto pagando 15.000 euro (una sciocchezza rispetto a Concita, ma io non sono biondo, ancora modestamente), devo rimborsare l’Inpgi e pagare un altro paio di avvocati che mi hanno difeso d’ufficio. Nella stessa condizione mia, 15 colleghi che lì hanno lavorato.
Emiliano Liuzzi