Un Paese che premia i raccomandati

di Gaetano Pedullà

Se, come si dice, la lingua batte dove il dente duole, giustizia e intercettazioni non smettono di far male alla tenuta del governo. Il Pdl non perde un colpo per barattare una legittima esigenza di garantismo con quella che, giocata così male, finisce per apparire come una ritorsione contro la magistratura. Il Pd non può sparare a pallettoni sull’alleato di Palazzo Chigi, ma nemmeno sostenere un giro di vite che fa imbufalire le procure. Risultato: i nodi restano tutti lì. Abbiamo un governo che, ben che vada, tirerà a campare. Abituiamoci.
Una cosa alla quale non vorremo abituarci mai è invece che il nostro sia un Paese che mortifica il merito, dove si fa strada a calci nel sedere e il successo sia garantito solo a una cerchia di privilegiati.

Per questo nella nostra inchiesta di oggi raccontiamo la strana sparizione dei concorsi pubblici. Un po’ motivata dal blocco delle assunzioni, un po’ dal gran numero di vincitori che ancora aspettano la chiamata in servizio, ma ancor di più spiegabile con un vizietto tutto italiano: se il concorso non c’è o non si fa, i posti si coprono con chiamate dirette e a discrezione di politici e burocrati. Molti i casi: quasi tutti i ministeri, polizia (non si fa un concorso dal 1996, si entra solo dalla leva), giustizia (nessun concorso per cancellieri dal 2001, nessun concorso per assistenti sociali dei tribunali dal 2000), ispettori del lavoro, persino la Rai (che ha bandito e annullato un concorso per giornalisti). L’esempio della televisione pubblica è emblematico. Se i giornalisti non ci sono, si inventano. E vai con l’assunzione di figure atipiche, come i programmisti registi che di fatto fanno poi i giornalisti a metà prezzo, fin quando non fanno causa, vincono, e si ritrovano tutti gli arretrati non percepiti, gli interessi e un posto fisso a vita, magari sottratto a qualcuno più capace e meritevole. Merito, appunto. Una parola che in Italia fa male pronunciare.