Venti di guerra in Siria. Putin vuole le prove dagli Usa. Obama lancia l’attacco sui media

da New York
Massimo Magliaro

L’operazione “flood the zone” sta dando qualche frutto. A furia di bombardare la pubblica opinione ed anche la classe politica americana, il duo Obama-Kerry comincia a vedere qualche risultato incoraggiante (per loro, ovviamente). Il presidente russo Vladimir Putin ieri in tv non ha escluso una partecipazione del suo Paese ad una iniziativa militare in Siria. Ma, ha subito aggiunto, soltanto nel caso in cui le prove fornite dagli ispettori Onu fossero decisive e inoppugnabili. Ma, ha sottolineato Putin, a queste prove determinanti lui non crede ed ha addirittura dato del “mentitore” a chi continua a dire che queste prove esistono. Anzi, suoi autorevoli collaboratori hanno nuovamente ribadito sempre ieri che i satelliti russi hanno rilevato che il 21 agosto ci sono stati sicuramente lanci di razzi con armi chimiche ma hanno precisato che questi lanci provenivano dalle zone della Siria controllate dai ribelli antigovernativi. Quanto alla fornitura di armi russe ad Assad, Putin ha annunciato che il sistema missilistico S-300, considerato oggi dagli esperti il più avanzato al mondo, sarà immediatamente consegnato nel caso in cui l’eventuale attacco americano dovesse avvenire senza la preventiva autorizzazione dell’Onu.

Snowden
Poi, per chiudere in bellezza l’intervista, Putin ha trovato la maniera di definire “difensore dei diritti umani” Snowden, l’ex-agente Cia che ha svelato i sistemi di controllo spionistici americani e che ha trovato asilo guarda caso proprio in Russia. Insomma l’aria che tira tra Putin e Obama non è proprio delle migliori a poche ore dall’inizio del G-20 di San Pietroburgo. Tanto che, contravvenendo al cerimoniale (che prevede che i posti attorno al tavolo siano fissati secondo l’ordine dell’alfabeto del padrone di casa, in questo caso il cirillico), i posti di Putin e di Obama attorno al grande tavolo della riunione saranno letteralmente agli antipodi. Al Senato di Washington comunque la bozza di risoluzione è stata approvata: prevede un attacco entro 90 giorni e senza truppe di terra. Cosa che, invece, il Segretario di Stato John Kerry non ha affatto escluso, correggendo (o contraddicendo) Obama che lo aveva escluso. Kerry è lo stesso che nell’intervento davanti alla Commissione Difesa ha annunciato trionfante che sono ben 44 i Paesi che stanno dalla parte degli Usa. Obama è intervenuto da Stoccolma ribadendo i suoi convincimenti. Il mondo non può stare in silenzio. Occorre una risposta efficace. E’ in gioco la credibilità dell’America e mia personale.

Armi chimiche
Quanto all’uso delle armi chimiche abbiamo una certezza che è elevata. Così ha detto: elevata. Quindi non assoluta. E sulle armi chimiche ha nuovamente detto che si tratta di un oltraggio alla vita umana. Non ha ovviamente ricordato il fosforo bianco che nel novembre 2004 il suo Paese usò a Falluja in Irak. Un po’ come l’allora Segretario di Stato Colin Powell che il 5 febbraio 2003 al Palazzo di Vetro disse che gli Usa possedevano in modo certo le prove delle armi chimiche in possesso di Saddam Hussein. Armi, quelle convenzionali, che invece stanno affluendo in Siria in modo continuo e massiccio. Da una parte e dall’altra. Il che ovviamente fa preoccupare non solo i cittadini siriani che si sentono gli obiettivi di una guerra ulteriore rispetto a quella che da due anni sta dilaniando.
Il loro Paese ma tutti i Paesi vicini. A cominciare da Israele che, per quante misure preventive prenda (distribuzione massiccia di maschere antigas alla popolazione, batterie di missili-antimissile soprattutto al nord, prove muscolari in Mediterraneo, sorvoli quotidiani del territorio libanese, manovre delle proprie truppe al confine) teme, e non potrebbe essere altrimenti, che un intervento come quello che preconizza Obama, limitato e breve, possa difficilmente non innescare reazioni imprevedibili in tutta la zona.