Dilaga la strategia dell’emozione. Siamo in balia del linguaggio di politici e pubblicitari. La filosofa francese Robert ci dice come difenderci

Li chiama “miserabilismo” e “sfera del lacrimevole” la filosofa francese Anne-Cécile Robert in questo suo ultimo saggio bello, tremendamente bello per levigatezza e causticità, dal titolo La strategia dell’emozione (Elèuthera, pagg. 175, euro 16); ovvero, quelle modalità linguistiche e comunicative che hanno ormai preso il sopravvento nelle esternazioni di politici, pubblicitari, conduttori televisivi, commentatori, finanche delle associazioni umanitarie e delle stelle del rock, che puntano, nell’approccio a un duro problema sociale, a una melassa stucchevole di compassione e indignazione, a una ondata di “empatie a geometria variabile” che sciacqua ogni contraddizione, asfalta i conflitti, vela o nega le responsabilità dei governanti, declassa e confonde il pensiero critico, insabbia ogni ipotesi sovversiva.

Basti guardare i tele-contenitori pomeridiani di casa nostra per renderci conto di come autentiche fattucchiere del trauma a buon mercato, della dolenza su scala industriale e del pianto a grappolo stile De Filippi e D’Urso, anneghino in un mare di tribolazioni di facciata – quando non dichiaratamente sporcate da derive gossipare e regie occulte finalizzate all’audience e all’incasso di cospicue sponsorizzazioni – problematiche affettive e comunitarie che meriterebbero ben altro splendore, ben altre forme di apprendimento e approfondimento. Ecco allora, dice la Robert, che sopravanza una vittimologia dilagante, all’interno del cui recinto magico e maledetto all’unisono, si preferisce imprecare contro il colpevole, simpatizzare con la vecchietta pestata di turno, cicatrizzare col facile consenso di conversazioni da vicinato rigorosamente in presa diretta ferite sociali che necessiterebbero di ben altri medicamenti, risalite etiche, discussioni appassionate, di una rinascita della vita democratica e del dialogo civile.

Narrazioni semplicistiche e riduttive infettano il nostro immaginario, là dove si dimentica il passato e si gioca col presente in un parossistico Lego di malinconie e lutti da vetrina, rincorrendo una “autenticità” impossibile da raggiungere perché inesistente – anche quando pensiamo di ravvederla negli strati più bassi della nostra sensibilità dove sembriamo privi di diaframmi interpretativi, nudi e innocenti. Il risultato? La cristallizzazione di un “narcisismo inquieto” dove accettiamo tutto secondo curve di indifferenza che si sposano a spinte conservatrici. Una febbre senza più Male da sradicare. Soggettività spettatrici e depoliticizzate. “Uno stato di vita decerebrato che ci trasforma in zombie”, e i guru del piccolo schermo in santoni e re del business più ipocrita.