È sempre guerra ai competenti. Il potere si difende facendo di tutta l’erba un fascio. Tre saggi approfondiscono il difficile avanzare della modernità tra interessi privati e ideologie

In principio erano cartografi, geografi, pubblicisti, mercanti, addetti ai censimenti, statistici, demografi: il cosiddetto ceto degli esperti, dei “competenti” che raggiunge l’acme nel XVII secolo, e che sfrutta le tecniche della contabilità, del calcolo e della razionalità scientifica per offrire un’immagine “oggettiva” della realtà, finalizzata alla concordia e alla prevenzione dei rischi collettivi.

Ne è convinto il sociologo inglese William Davies in un bellissimo trattato Stati nervosi (Einaudi, pgg. 362, euro 18,50) che ci illustra proprio il passaggio nei secoli da un’epoca di massima deferenza verso chi, cartesianamente, lascia da parte faziosità e ideologie, desideri e interessi privati, e pianifica la conoscenza in nome della pace e della massima affidabilità dei concetti, a una, la nostra, dove invece è l’emozione a farla da padrona, a scalzare gli ottimati del sapere, e a trascinarci lungo una china dove la politica è “poco più che un sistema di coordinamento di massa tramite un sentimento condiviso”, dove vigono “flessibilità e reattività”, e dove verità è “qualsiasi cosa che non sia stata ancora eliminata da qualcos’altro”.

Sperimentazione contro fluttuazione. Definizione matematica di campi contro elasticità di bande di oscillazione. Lotta al segreto contro piramidi di menzogne. Una rupture epistemologia fortissima, che porta a quelle narrazioni di sciame (e spesso di strame) che Goffredo Fofi (nella foto) nel suo ultimo caustico j’accuse L’oppio del popolo (elèuthera, pagg. 166, euro 16) associa all’ipertrofia di divertissement, pubblicità e insulsi giochi mediatici, ovvero al “governo senza rischio delle persone e delle classi” che produce solo “la supinità (e stupidità) dei sudditi”, e che ci avvolge nel suo venefico bozzolo di subcultura e desimbolizzazione profonda dei processi istituzionali e dei vissuti personali. Qui torna il ceto intellettuale, ma solo come drappello sparpagliato di imbonitori e servi di partito, e latita una narrazione che sia, se non fotografia perfetta e armoniosa del presente, quanto meno attendibile nei metodi e nei risultati.

Dietro il naufragio del pensiero trasceso in “fine dell’empatia” e in connessione globalizzata, come dice Marco Aime in un saggio molto pedagogico, Comunità (il Mulino, pagg. 128, euro 12), ci aspetta, insomma, spettrale, un mondo centralizzato nel mercato, mobile e liquido, amorale e disincantato, dove “ciascuno trasmette, ma nessuno ascolta”: sfida e abisso di un tempo che perde le radici, ma recalcitra a far sbocciare i germogli di un futuro in cui tutti si possano riconoscere.