Il 29 marzo si vota per il referendum. Per giornali e Tv vietato parlarne. La consultazione si avvicina nel silenzio dei media. In ballo la riforma che taglia a 600 i seggi parlamentari

Il 29 marzo, anche se sui media non se ne parla, l’Italia tornerà al voto per il referendum confermativo della riforma sul taglio dei parlamentari, fortemente voluta dal Movimento 5 Stelle. Se la consultazione popolare dovesse confermare la riduzione del numero dei parlamentari, dagli attuali 945 complessivi il numero scenderebbe a 600 totali, 200 senatori e 400 deputati. L’istituto dei senatori a vita sarebbe conservato ma fissandone a 5 il numero massimo (ad oggi 5 è il numero massimo che ciascun presidente della repubblica può nominare). Ridotti anche gli eletti all’estero: i deputati scendono da 12 a 8, i senatori da 6 a 4.

Tanto si è discusso sul taglio delle “poltrone”, a Montecitorio e Palazzo Madama e ora spetterà ai cittadini cambiare l’assetto del Parlamento stabilito dagli articoli 56, 57 e 59 della Carta costituzionale, liberando 345 poltrone e risparmiando quasi 82 milioni di euro annuali, 57 milioni di euro calcolando il netto delle imposte, pari allo 0,007% della spesa pubblica italiana. Come prevede l’articolo 138 della Costituzione, per la validità del referendum costituzionale non è previsto alcun quorum minimo di votanti, è sufficiente che i consensi superino i voti sfavorevoli. Se il risultato della consultazione sarà positivo, il Capo dello Stato promulgherà la legge, in caso contrario, è come se la legge stessa non avesse mai visto la luce.

Quello del 29 marzo sarà il quarto referendum costituzionale confermativo della storia della Repubblica. Il primo si è svolto il 7 ottobre 2001 per confermare o meno la riforma del Titolo V della Carta, approvata negli anni dei governi Prodi, D’Alema e Amato: passò con il 64,2% di voti favorevoli anche se l’affluenza si fermò poco oltre il 34%. Il secondo caso di referendum confermativo, il 25 e 26 giugno 2006, ha riguardato la riforma costituzionale varata dal governo Berlusconi (su ispirazione della Lega di Bossi e con Calderoli ministro delle Riforme): prevedeva, fra le altre cose, la cosiddetta “devolution”, cioè la devoluzione alle regioni della potestà legislativa esclusiva in alcune materie da parte dello Stato centrale, la fine del bicameralismo perfetto, con la suddivisione del potere legislativo tra Camera dei deputati e Senato Federale e, anche in quell’occasione, la riduzione del numero di deputati (da 630 a 518) e senatori (da 315 a 252). La legge fu bocciata dal 61% dei cittadini con un’affluenza del 52%.

Il terzo referendum costituzionale è stato quello del 4 dicembre 2016, quando la maggioranza dei votanti respinse il testo di legge costituzionale della cosiddetta riforma Renzi-Boschi, recante modifiche alla parte seconda della Costituzione, prevedendo sostanzialmente la trasformazione del bicameralismo paritario in bicameralismo differenziato nonché il superamento di molti conflitti di attribuzione fra Stato e regioni sull’esercizio della potestà legislativa, con un ridimensionamento dell’autonomia regionale giustificato anche alla luce degli scandali e della cattiva gestione delle risorse pubbliche emersi in diverse amministrazioni locali.

La consultazione popolare vide un’affluenza alle urne pari a circa il 65% degli elettori residenti in Italia e all’estero e una netta preponderanza dei pareri contrari alla riforma, che superarono il 59% delle preferenze espresse. Come è noto, il risultato portò alle dimissioni dell’allora premier Matteo Renzi. Che, come è noto lo aveva trasformato in un referendum su se stesso. Per quanto riguarda la consultazione del 29 marzo prossimo, invece, la vittoria sembra scontata: secondo gli ultimi sondaggi disponibili a favore del provvedimento sarebbero addirittura l’86% degli italiani.