Il decreto Bonafede funziona. Finita la pacchia per altri tre boss. Ieri è tornato in carcere l’ergastolano Sudato. Riesaminato anche il caso dello ‘ndranghetista Giuffrè

Crolla, giorno dopo giorno, la balla leghista secondo cui le scarcerazioni al tempo del covid sono state favorite dal ministro Alfonso Bonafede. Anzi è vero il contrario perché i domiciliari a boss e killer, sono stati disposti sulla base di vecchie norme a cui proprio il guardasigilli ha messo una pezza come dimostrano i recenti risultati. Negli ultimi due giorni e sulla base delle nuove norme, infatti, ad altri tre mafiosi sono stati revocati i domiciliari concessi durante l’emergenza sanitaria. Tra i casi riesaminati spicca quello a carico di Nicolino Gioffrè, finito ai domiciliari il 18 marzo, già condannato in primo grado a 13 anni e 4 mesi per associazione mafiosa ed estorsione. L’uomo, arrestato nel maggio 2017, è ritenuto un luogotenente della cosca Arena e referente, per conto della stessa, sul territorio catanzarese.

Un ruolo di spicco che lo ha portato a partecipare ad alcuni summit di ndrangheta con cui le cosche hanno tentato di ristabilire i sempre precari equilibri nei diversi territori. Stessa sorte toccata anche per Antonino Sudato, ossia il primo ergastolano che ha ottenuto la scarcerazione durante l’emergenza. Proprio il suo nome era finito nella lista nera del Dap, redatta dal nuovo vicecapo Roberto Tartaglia, dei detenuti da riportare al più presto in carcere. Tra questi anche Vincenzo Guida, riportato in cella anche lui, considerato il “banchiere della Camorra” a Milano nonché pregiudicato per associazione di stampo mafioso, reati in materia di droga e, per concludere, associazione per delinquere finalizzata alla commissione di reati societari e tributari.

Un curriculum criminale di tutto rispetto quello vantato da Guida con l’ultimo arresto che risale al 13 novembre 2015 quando gli investigatori della Mobile hanno eseguito il fermo, disposto dalla Direzione distrettuale antimafia del capoluogo lombardo, gli hanno contestato l’esercizio abusivo del credito aggravato dal metodo mafioso e l’impiego di denaro di provenienza illecita, usura ed estorsione. All’epoca dei fatti la vicenda era stata ribattezzata come “la banca della camorra” con l’arrestato che aveva creato un istituto di credito parallelo, potendo contare sui fondi delle cosche, prestando cifre anche imponenti e in pochissimo tempo agli imprenditori in difficoltà. Peccato che chi chiedeva il suo aiuto poi si ritrovava a fare i conti con tassi usurai impossibili da ripagare.