Nelle chat i segreti del Metropol. Ma per Salvini sono baggianate. L’ultimo pizzino aggrava la posizione di Savoini. Caccia alla prova decisiva nei cellulari degli indagati

Sembra difficile bollare l’inchiesta sul Russiagate come una baggianata. Eppure Matteo Salvini lo fa sin da quand’è deflagrata la notizia sugli incontri carbonari al Metropol di Mosca, tra russi e uomini vicini alla Lega. A ben vedere, però, il Capitano farebbe meglio ad iniziare a prendere la cosa sul serio perché, ormai settimanalmente, spuntano nuovi particolari che aggiungono interrogativi che non possono essere ignorati. L’ultimo di questi spunta dritto dritto dalla memoria, rigorosamente criptata, di uno dei telefonini sequestrati nel corso dell’indagine.

Si tratta di un file jpg, ossia un’immagine, in cui è immortalato un foglio di carta, scritto a mano, in cui sono messi nero su bianco i termini dell’accordo raggiunto all’hotel Metropol tra i tre componenti della delegazione leghista e tre funzionari russi. Un documento importantissimo che certifica i contenuti dell’incontro del 18 ottobre scorso a cui hanno partecipato il presidente dell’associazione Lombardia-Russia ed ex portavoce del leader leghista Gianluca Savoini, l’avvocato Gianluca Meranda e il consulente bancario Francesco Vannucci, per trovare la quadra su un accordo per la compravendita di una gigantesca partita di petrolio, a prezzo di saldo, capace di far entrare ben 65 milioni di dollari nelle casse del Carroccio per finanziare la campagna elettorale delle elezioni europee.

SENZA PAURA. Basterebbe questo per far tremare i polsi a chiunque e, invece, il Capitano continua ad ostentare sicurezza e, dopo che la notizia ha invaso i media nazionali, è tornato, quasi fosse un disco rotto, a ripetere: “Non c’è un dollaro, un fiorino, un rublo, io non ho mai visto o chiesto un euro. Possono fare e pubblicare tutti i disegnini che vogliono, aspettiamo che si chiuda l’inchiesta, che è aperta da più di un anno”. Poi, per essere ancor più chiaro, precisava: “Parliamo di cose serie perché questa (indagine, ndr) non lo è”.

Il problema è che questa volta appare a dir poco complicato dargli ragione. Eh si perché ridurre il tutto ad una gogna mediatica oppure ad un’ingiusta persecuzione, non è più possibile. Come non lo è nemmeno il continuare a dire che l’audio catturato durante l’incontro al Metropol sia di dubbia provenienza perché, da ieri, proprio con quel “disegnino”, come lo ha definito Salvini, è arrivata la conferma definitiva.

DOCUMENTO ATTESO. A ben vedere, il file jpg è una sorta di pizzino che i tre indagati si sono passati via chat all’indomani dell’incontro di quasi un anno fa. Un papello in cui sono immortalate in bella mostra le cifre dell’accordo e le percentuali da dividere tra i tre italiani vicini alla Lega, a cui era destinato il 4%, e i tre uomini di Vladimir Putin, ai quali spettava il 6%. Ma c’è di più perché il documento era largamente atteso dagli investigatori in quanto nell’audio che ha dato origine all’inchiesta c’era un chiaro riferimento. Al termine della trattativa è uno degli italiani, secondo gli inquirenti l’avvocato Meranda, a prendere la parola per fare un riferimento all’immagine incriminata: “Farò solo uno screenshot qui e ve lo manderò in modo che siamo sincronizzati. Ok signori, penso che stia andando nella giusta direzione”.

SILENZIO ASSORDANTE. Insomma la situazione sembra piuttosto ingarbugliata. Dopo la prova audio, le timide ammissioni degli indagati e i dati che potrebbero emergere dall’analisi delle chat dei loro cellulari, tutto si può dire tranne che l’inchiesta sia una baggianata. Nulla vieta che alla fine possa concludersi in un nulla di fatto ma non c’è dubbio che, ad oggi, tutto sembra far pensare al contrario. Così a far rumore non sono tanto le sparate con cui Salvini sta tentando di snobbare la questione, quanto, semmai, i suoi silenzi quando è stato chiamato a riferire in Parlamento sul Russiagate.

Ma se voleva davvero mettere a tacere le inevitabili polemiche, forse avrebbe fatto bene a presentarsi in Aula anziché lasciare l’incombenza al premier Giuseppe Conte. Tanto più che all’epoca dei fatti era ministro dell’Interno, cosa che lo investiva di una responsabilità istituzionale, e aveva il vento in poppa del Paese che sembrava pendere dalle sue labbra. Un’occasione mancata che avrebbe potuto sfruttare per spiegare le sue ragioni, smarcarsi dall’inchiesta, e mettere davvero a tacere le polemiche anziché alimentare dubbi anche nei pm.