Non solo Mafia Capitale. Così Pignatone ha scritto la nuova storia di Roma. Il procuratore andrà in pensione il 9 maggio. Nel suo mandato ben poche sconfitte

Il magistrato Giuseppe Pignatone è alla guida la Procura di Roma dal 2012

Con lui si apriva e ora si chiuderà un’era. Infatti uno che la sapeva lunga sul conto del procuratore capo Giuseppe Pignatone, all’epoca in odore di trasferimento nella Capitale e oggi prossimo alla pensione, di lui diceva: “ha già buttato all’aria la Calabria, farà lo stesso anche a Roma”. Ed effettivamente il cecato, Massimo Carminati, con quella frase profetica ci aveva visto lungo capendo prima di tutti che di lì a poco la Capitale sarebbe cambiata in modo irreversibile.

Una trasformazione a cui pochi credevano perché sin dai tempi della Prima Repubblica, quando cioè vigeva la spartizione dei posti nelle istituzioni tra le correnti democristiane, la Procura di Roma valeva un ministero perché era il luogo dove si esercitava il controllo sui controllori del potere. Un giudizio non lusinghiero che era valso l’appellativo di “porto delle nebbie” alla Procura più grande d’Italia dove, tra migliaia di scartoffie, le maggiori inchieste si arenavano inesorabilmente. Foschie che però Pignatone ha subito diradato con una serie di terremoti giudiziari.

Schivo, pignolo e scrupoloso, è sempre restato in disparte facendo parlare le sue indagini, i suoi successi e, perché no, anche le sue sconfitte. Eppure, in uno scherzo del destino, finiva per diventare un magistrato star. Dall’ex sindaco Gianni Alemanno che amministrava la città eterna mentre il Procuratore vi si insediava, passando per Ignazio Marino e finendo con la prima cittadina grillina Virginia Raggi, tutti ne tessevano le lodi senza che questo li mettesse al riparo dalla sua lente d’ingrandimento. Il primo ad essere indagato fu il politico di centrodestra nel cosiddetto Mondo di Mezzo.

La stessa inchiesta che, detonata durante il mandato di Marino, terremotò il Campidoglio risultando fatale, assieme al caso scontrini, anche al primo cittadino dem. Non che fosse stato indagato in quella vicenda ma gli esponenti del suo stesso partito lo accusarono di essere un alieno privo di controllo sulla città e per questo ne causarono la caduta, spianando la strada al senso di rivalsa dei romani, spesso al centro dei pensieri del Procuratore, che successivamente premiavano M5S e la Raggi. Ma neanche lei veniva risparmiata infatti veniva indagata, poi assolta, nel caso delle nomine in Campidoglio.

Pignatone ha attraversato linearmente un pezzo di storia d’Italia. Entrato in magistratura nel 1974, ha lavorato prima a Caltanissetta poi a Palermo. Qui con l’allora Procuratore Capo Pietro Grasso faceva condannare numerosi capi clan, si occupava delle indagini sulle Stragi di Capaci che portarono all’arresto di Totò Riina e coordinò l’inchiesta che portò alla cattura di Bernardo Provenzano. Negli anni ’80 faceva incriminare e condannare l’ex sindaco Vito Ciancimino per mafia e, successivamente, la stessa sorte toccava anche all’ex presidente della regione vicino a Cosa Nostra, Totò Cuffaro.

Arrivato a Reggio Calabria iniziava lo scontro con la ‘ndrangheta che, colpita duramente, lo minacciava lasciando un bazooka, a lui indirizzato, davanti all’ingresso della Procura. Nel 2012 sbarcava a Roma dove, in pochi anni, assicurava alla giustizia il truffatore Giancarlo Lande, e portava alla luce gli scandali della gestione dei rifiuti del ras Manlio Cerroni. Altra inchiesta è quella sullo Stadio della Roma che ha travolto prima il costruttore Luca Parnasi, giovane rampollo dell’imprenditoria capitolina, poi il presidente dell’Assemblea Marcello De Vito.

Neanche gli eroi della mitologia erano immuni alle cadute e lo stesso destino è capitato anche a Pignatone. La sua più grande delusione, seppur parziale, risale a Mafia Capitale quando l’indagine che sembrava destinata a travolgere la politica nazionale, in realtà si fermava al livello immediatamente precedente. Inchiesta che, tra l’altro, aveva rischiato di deragliare quando i giudici di primo grado facevano cadere l’accusa di mafia poi riconosciuta dai colleghi dell’Appello. E questo, forse, è il suo più grande insegnamento: credere in quel che si fa, senza mai darsi per vinti.