Omertà e intimidazioni. Roma terra di clan anche se non sparano. Dagli avvocati troppe offese ai pm. Il Mondo di mezzo non è un processetto

“Ma vi pare possibile che la mafia sia stata riconosciuta a Roma in questi ultimi 7 anni, da quando c’era Pignatone, e prima nessuno se n’era mai accorto”? E ancora “E’ stato un processetto, in cui si è voluto dopare una realtà criminosa di margine”. Ecco i commenti che non avrei mai voluto leggere sulla sentenza della Cassazione, della quale si attendono (con ansia) le motivazioni, relativa alla negazione dell’associazione mafiosa nella questione “mondo di mezzo”. E’ giusta l’attesa delle motivazioni, ma è altrettanto possibile – quantomeno – non accettare le impostazioni giudiziali (e dottrinarie) che vedono nell’associazione mafiosa un reato da qualificarsi solo se l’associazione a delinquere spara (la semplificazione, chiedo scusa, vuole essere per ora solo giornalistica).

Innanzitutto, la deontologia professionale forense impone di non usare frasi offensive per una Procura, vieppiù come quella romana, che tanto sta facendo contro le mafie. Roma ne è piena, se non hanno sbagliato anche i magistrati della Direzione nazionale antimafia e gli investigatori della Direzione investigativa antimafia. Cosche, ‘ndrine, camorristi hanno invaso la capitale, anche se non ne hanno (ancora) assunto il controllo del territorio (ma rinvio ad una bella inchiesta dell’Espresso del 22 settembre scorso). In un primo commento (televisivo) aglio arresti del 2014, ebbi a dire ciò che qui ribadisco, perché la posizione non cambia a seconda delle convenienze politiche che qualcuno – ancor di più da oggi in poi – andrà ad utilizzare. Gli elementi del 416-bis del codice penale cerano e ci sono tutti.

“L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri”. Così la legge italiana. Ripeto qui, senza ripercorrere le note vicende, con nomi e cognomi, che c’era l’intimidazione su pubblici funzionari ed operatori economici, e c’era un vincolo associativo (anche se, come si dice, “tra due diverse organizzazioni”), che portava a vantaggi economici (e a che cosa senno’!).

E quand’anche non fossero stati chiari tutti i contorni delle singole componenti di questa formula legislativa, c’era l’aggravante del “metodo mafioso”, perché quest’ultimo è quello utilizzato da Carminati e compagni per raggiungere le loro (non filantropiche) finalità. Il garantismo del quale, soprattutto noi avvocati e studiosi del diritto, non possiamo fare a meno, impone ancora pazienza nell’attendere le motivazioni della Suprema Corte, anche perché la sesta sezione penale ci ha abituati a pronunce ponderate e sagge. Una ultima considerazione, metagiuridica, ci tengo a farla. Si eviti, per favore, di giustificare comportamenti che di mafioso possiedono la intima essenza – anche se questa non è (sempre) censurabile dalla magistratura -, e si rifletta sul perché i giudici molto spesso ipotizzano “l’aggravante mafiosa” per le associazioni a delinquere cosiddette “semplici”.

Qui, ripeto, detta aggravante c’era. Comportamenti simili a quelli adottati da chi sta rovinando questa città (così come Ostia, non dimentichiamolo) sono “comportamenti mafiosi” (come amo definirli), per cui – se ancora non possibile – dobbiamo cercarne gli estremi di punibilità, ovviamente attraverso una modifica del codice penale che ne consenta l’inquadramento antigiuridico. Il rapporto “Mafie nel Lazio”, da poco presentato alla stampa, ci consegna un dato che, seppur possa essere preso con le dovute cautele, non può che supportare quanto qui affermo: 103 cosche e clan nel Lazio. Sono davvero troppe.
(L’Autore è direttore del Centro ricerca sicurezza e terrorismo)