Scoppia la guerra degli appalti

di Stefano Sansonetti

La guerra degli appalti pubblici è appena iniziata. E gli esiti, almeno per il momento, sembrano del tutto imprevedibili. La novità è che i piccoli comuni, quelli con meno di 5 mila abitanti, hanno dato vita a una loro centrale di committenza pubblica, in pratica una società a cui rivolgersi per la gestione di tutte le procedure di gara. L’obiettivo, sul modello delle centrali di acquisto statali come Consip (100% Tesoro) o di quelle regionali come Intercent (Emilia-Romagna) ed Estav (Toscana), dovrebbe essere quello di spuntare prezzi vantaggiosi sulle forniture di beni e servizi. Scopo fondamentale, in un periodo di spending review e in un contesto di spesa per forniture che ogni anno si porta via la bellezza di 130 miliardi di euro. C’è chi dice, però, che con questa operazione in realtà i sindaci vogliano mantenere mano libera sul sistema degli appalti e su tutti i miliardi che vi girano intorno. La partita è a dir poco spinosa e fa direttamente riferimento all’interpretazione del codice degli appalti pubblici.

Il veicolo
Sta di fatto che i piccoli comuni hanno rotto gli indugi dando vita a una struttura che si chiama Asmel. Si tratta di una società consortile che fa direttamente capo all’omonima Asmel, ovvero l’Associazione per la sussidiarietà e la modernizzazione degli enti locali. L’organismo, non proprio conosciutissimo nel panorama economico, vanta in realtà numeri di tutto rispetto. Ad esso aderiscono più di 1.800 comuni (soprattutto in Campania, Piemonte, Calabria e Lombardia), una regione, 4 enti parco, 22 comunità montane e 5 province. Il tutto per un bacino d’utenza di oltre 8,5 milioni di abitanti. Ebbene, Asmel consortile, sulla carta, dovrebbe essere proprio quella centrale acquisti destinata a far concorrenza alle varie Consip, Intercent ed Estav. Le quali, però, vedono con un po’ di fastidio l’iniziativa. Peraltro la decisione di dar vita all’operazione non può definirsi proprio “spontanea”. A monte, infatti, c’è il decreto Salva Italia predisposto nel 2011 dall’allora governo Monti. Con questo provvedimento, in pratica, si è integrato il codice degli appalti pubblici stabilendo che “i comuni con popolazione non superiore ai 5 mila abitanti, ricadenti nel territorio di ciascuna provincia, affidano obbligatoriamente a un’unica centrale di committenza l’acquisizione di lavori, servizi e forniture”. Oppure, prosegue la norma, possono costituire “un apposito accordo consortile tra i comuni medesimi”. Insomma, il Salva Italia ha messo i piccoli comuni davanti a una scelta: o ci si affida a una centrale di committenza pubblica, in pratica alla Consip controllata dal Tesoro oggi guidato da Fabrizio Saccomanni, oppure si fa riferimento a una centrale costituita ad hoc in forma consortile. E quest’ultima sembra essere stata la scelta fatta con la costituzione di Asmel.

Le contestazioni
Si dà però il caso che l’operazione non sia andata giù al mondo delle centrali pubbliche di committenza già esistenti. Le quali accusano l’Asmel di eludere l’obbligo imposto dal codice degli appalti. In base alle critiche l’Asmel lascerebbe liberi i comuni aderenti di svolgere autonomamente le procedure di gara, fino all’aggiudicazione. In pratica non centralizzerebbe la procedura, unico modo per garantire risparmi e trasparenza. Il presidente di Asmel, Francesco Pinto, contattato da la Notizia, ha respinto le critiche ai mittenti. “Innanzitutto noi vantiamo risultati migliori di Consip e Intercent in termini di prezzi ottenuti”, ha esordito, “come per esempio è successo con una gara per la telefonia organizzata qualche tempo fa e vinta da British Telecom con offerte nettamente migliori”. La realtà, ha continuato Pinto, “è che non bisogna temere la concorrenza di una centrale acquisti come la nostra”. Ma il punto è proprio questo: Asmel può davvero essere considerata una centrale che gestisce tutte le fasi della procedura, come previsto all’interno del codice degli appalti? “Guardi, noi lasciamo liberi i comuni di chiederci come vogliono essere aiutati. Possono delegarci il 100% delle attività oppure continuare a gestire autonomamente alcune fasi”. Eppure proprio questa sembrerebbe essere un’opportunità negata dal codice degli appalti, dove si stabilisce che i piccoli comuni hanno l’obbligo di affidarsi a una centrale acquisti per tutta la procedura. Sul punto Pinto fa notare che la norma del codice in questione “è ai limiti della costituzionalità, perché non si può imporre a un comune, anche se piccolo, di rinunciare totalmente alla sua autonomia”. Nel mondo degli appalti, si sa, girano un sacco di soldi. E anche i piccolo comuni muovono miliardi di euro in commesse. Una torta su cui forse non vogliono mollare la presa. La battaglia è solo all’inizio.

Twitter: @SSansonetti