Leone XIV parla ai cronisti: “Beati gli operatori di pace”. Ma in Italia la parola dei media resta ancora un’arma

Il Papa chiede parole disarmate e verità, ma la stampa italiana continua a odiare, travisare, semplificare, urlare

Leone XIV parla ai cronisti: “Beati gli operatori di pace”. Ma in Italia la parola dei media resta ancora un’arma

“Beati gli operatori di pace”. Nel primo discorso da Papa ai giornalisti, Leone XIV ha scelto la Beatitudine più trascurata. Ha chiesto di disarmare la comunicazione, di rifiutare il modello della competizione, di dire no al paradigma della guerra. Ha parlato della libertà di stampa come bene prezioso e della verità come forma di giustizia. Ha ringraziato chi racconta i conflitti a costo della vita. E ha chiesto la liberazione dei cronisti imprigionati per aver osato informare.

Un discorso alto, necessario, che chiama in causa un’intera categoria. Ma che in Italia suona come una condanna. Perché qui gli operatori dell’informazione hanno smesso da tempo di operare per la pace. Hanno dimenticato la verità, l’ascolto e la complessità. Hanno sposato il sensazionalismo, la semplificazione, l’aggressività. E spesso, l’odio.

La fabbrica dell’odio, giorno dopo giorno

Lo raccontano i fatti che fotografano lo stato della stampa italiana nel tempo della guerra e della propaganda. Il quadro è netto: i media italiani non si limitano a raccontare l’odio, lo moltiplicano. Spesso lo creano. Il lessico violento si riversa sulle persone migranti, sulle donne, sulle persone disabili, sugli ebrei, sulle persone omosessuali. È un odio “distribuito”, ben segmentato, che segue la mappa dell’intolleranza e la amplifica, cavalcando i clic.

In Italia si continua a usare “clandestino” nei titoli. Si parla di “assedi” quando si descrivono gli sbarchi. Si tratta l’immigrazione come un’invasione da respingere. Il dolore come uno spettacolo. I sospetti come colpevoli. I bambini come accessori narrativi. La guerra, come un videogioco.

La pace è un’altra cosa

Non c’è solo odio. C’è anche la retorica bellica, l’informazione a senso unico, la dipendenza dalla propaganda. Lo dimostra la copertura del conflitto in Ucraina: entusiasmo per i “fantasmi” di Kyiev, silenzio sulle manipolazioni. Due pesi e due misure nella narrazione dei morti: quelli ucraini sono vittime, quelli palestinesi numeri. E ancora: rifugiati europei raccontati con empatia, migranti africani trattati come minaccia. L’etica del giornalismo, qui, ha i confini di Schengen.

C’è poi la pornografia della sofferenza, la “TV del dolore” che si alimenta di tragedie private. I minori vengono spiati e spiattellati, le persone accusate sono giudicate prima dei tribunali, le famiglie delle vittime usate come arredi da studio. Il rispetto della dignità è diventato una variabile accessoria. Le regole – Carta di Treviso, Testo unico dei doveri del giornalista – esistono, ma non abitano le redazioni.

E intanto i giornalisti si scoprono poveri, ricattabili, sostituibili. Il lavoro precario diventa precario anche nel pensiero. Chi lavora in una redazione sa che vale di più un titolo urlato che una verifica. Chi lavora da freelance sa che non ci sarà tempo per controllare, ascoltare, raccontare davvero. I “tempi difficili da percorrere e da raccontare” evocati oggi dal Papa in Italia sono già una resa.

Leone XIV ha parlato di comunicazione come creazione di una rete di amicizia. Di uno sguardo diverso sul mondo. Ha chiesto che la tecnologia – intelligenza artificiale compresa – serva l’umanità. Ha detto ai giornalisti che la Chiesa li considera testimoni. Ha detto che solo i popoli informati possono fare scelte libere.

Ha parlato ai giornalisti. Ma in Italia, chi gli ha risposto? Chi ha fatto silenzio per ascoltare davvero? Chi ha rinunciato alla competizione per cercare la verità? Chi ha disarmato la lingua?Forse nessuno. Perché qui la parola è ancora un’arma. Ma non serve a difendere la giustizia. Serve a costruire nemici.