Acqua pubblica, storia di un referendum ignorato: ricorso alla Corte di Strasburgo per far valere la volontà popolare

Dal voto plebiscitario del 2011 alla beffa regolatoria: un gruppo di giuristi porta lo Stato italiano davanti alla Corte Europea dei Diritti

Acqua pubblica, storia di un referendum ignorato: ricorso alla Corte di Strasburgo per far valere la volontà popolare

Nel giugno del 2011, oltre 26 milioni di cittadini italiani dissero chiaramente che l’acqua doveva restare fuori dal mercato. Due quesiti referendari abrogarono norme che permettevano la gestione privata dei servizi idrici e la remunerazione del capitale investito attraverso le tariffe. Un “sì” plebiscitario, con percentuali sopra il 95%. Eppure, a quattordici anni di distanza, quel voto risulta ignorato. Il servizio idrico in Italia continua a essere strutturato in modo tale da garantire margini di profitto, seppure sotto nomi diversi.

La denuncia è ora nero su bianco: un gruppo di giuristi ha depositato alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu) un ricorso di circa duemila pagine contro lo Stato italiano. Il cuore dell’accusa è semplice quanto grave: l’Italia ha violato il diritto dei cittadini a veder rispettata la propria volontà democratica.

Profitti travestiti da costi

Il nodo è tutto nella terminologia. Mentre la “remunerazione del capitale investito” è stata formalmente espunta, Arera – l’Autorità di regolazione per energia, reti e ambiente – ha introdotto negli anni un nuovo lessico tariffario: “oneri finanziari”, “costo della risorsa finanziaria”, “recupero integrale dei costi”. Sotto queste voci, secondo il Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua, si cela ciò che il referendum aveva chiaramente rifiutato: la possibilità per i gestori di trarre profitto dall’erogazione dell’acqua.

I numeri rendono la denuncia ancora più netta. A fronte di 13,8 miliardi di investimenti programmati nel periodo 2020-2049, i gestori incasseranno 4,6 miliardi di utile netto. Si tratta, in media, di un euro di profitto ogni tre euro investiti. Un rapporto che smentisce le promesse di reinvestimento e svela la continuità di un modello che tratta l’acqua come merce.

La deriva regolatoria

Subito dopo il referendum, il Parlamento aveva formalmente recepito l’esito popolare con i decreti del Presidente della Repubblica n. 113 e n. 116 del 2011. Ma il meccanismo si è inceppato nel passaggio successivo: la regolazione. Arera ha assunto la funzione di definire i criteri tariffari, elaborando metodologie via via più complesse – dal Metodo Tariffario Transitorio (MTT) al recente MTI-4 – che, secondo i critici, rendono impossibile comprendere se il profitto sia stato davvero eliminato. Una complessità che ha disarmato il controllo democratico.

Nel 2012 la Corte Costituzionale ha cercato di porre un argine, dichiarando illegittimo il tentativo legislativo di reintrodurre norme abrogate, ma non ha potuto intervenire sulle delibere dell’Autorità. Lì si è aperta la falla: le agenzie indipendenti sono diventate zone franche dove l’interesse pubblico rischia di perdersi tra cavilli tecnici e neutralità solo apparente.

Strasburgo e la posta in gioco

Il ricorso alla Cedu punta a forzare questo blocco istituzionale. I giuristi denunciano la violazione dell’articolo 14 della Convenzione – il principio di non discriminazione – e parlano apertamente di peggioramento della qualità della vita causato dall’aumento delle tariffe idriche. L’accusa, se accolta, potrebbe aprire un precedente: il riconoscimento che anche l’inerzia nell’attuazione di un referendum può costituire una lesione dei diritti fondamentali.

Non sarà semplice. La Corte di Strasburgo ha una giurisdizione limitata in materia economica. Ma la forza del ricorso sta nel suo impianto: non si contesta solo una tariffa, ma un tradimento. Un tradimento che ha valore politico prima ancora che giuridico, perché mina il principio su cui si regge ogni democrazia: la sovranità popolare.

Il costo dell’impunità istituzionale

In fondo, la questione dell’acqua non riguarda solo l’acqua. Riguarda la possibilità per i cittadini di decidere. Riguarda la tenuta dello Stato di diritto quando le istituzioni si muovono al di fuori o contro il mandato ricevuto. Se i referendum possono essere svuotati da regolamenti e “oneri finanziari”, allora la partecipazione diventa un orpello e il voto un simulacro.

Il ricorso alla Cedu rappresenta l’estremo tentativo di ottenere giustizia su un diritto basilare: quello di non vedere la propria volontà calpestata. Se anche Strasburgo dovesse archiviare il caso, resterà intatta la domanda politica: chi risponde del tradimento di 26 milioni di elettori?