Non solo lo stipendio. Per i lavoratori italiani il lavoro ideale è quello che garantisce sì una retribuzione adeguata, ma anche opportunità di crescita, un ambiente aziendale coerente con i propri valori e – soprattutto per i più giovani – autonomia e possibilità di lavorare da remoto. È quanto emerge da una ricerca condotta a inizio giugno da Business Intelligence Group (BIG), presentata nella sede di Grenke Italia durante un incontro tra esperti e manager del settore.
La priorità, resta comunque economica: per il 97,3% degli intervistati la retribuzione è la variabile più importante nella valutazione di un’offerta di lavoro. Ma il suo significato cambia a seconda della generazione: se per i baby boomers (99,5%) lo stipendio è sinonimo di stabilità e status, per la Gen Z (91,4%) rappresenta più uno strumento abilitante che un fine ultimo.
Accanto al reddito, emerge con forza la richiesta di sviluppo professionale, indicato come essenziale dal 92,1% del campione. Ancora una volta, sono i boomers a mostrarne l’interesse maggiore (93,3%), alla ricerca di percorsi chiari di crescita e apprendimento. A contare è però anche l’identità delle aziende: il 92,1% degli italiani ritiene rilevante la cultura aziendale. Le generazioni più mature pongono l’accento sul clima organizzativo, mentre i giovani – in particolare la Gen Z – si aspettano attenzione a diversità, inclusione e stili di leadership più orizzontali e rappresentativi.
Nel lavoro non conta solo lo stipendio: per gli italiani sono importanti anche la flessibilità e lo smart working
La flessibilità oraria si conferma un valore trasversale, richiesto dal 91,2% del campione e, in particolare, dal 95% della generazione Z. L’esigenza di autonomia nella gestione del tempo va di pari passo con quella di conciliazione tra lavoro e vita privata: l’equilibrio tra sfera professionale e personale è fondamentale per l’89,4% degli intervistati, con picchi tra le donne (91,1%) e i millennials (92,4%).
In questo contesto, lo smart working continua a dividere. Se nel complesso è importante per il 63,1% degli italiani, tra i più giovani la percentuale sale al 76,8%, contro il 53,2% dei boomers. Più scettici i vertici aziendali: solo il 47,7% dei C-level ne riconosce l’utilità, temendo soprattutto le ricadute sulla collaborazione interna.
Secondo Fabiana Carioli, People Experience Director di Grenke Italia, la “giustizia retributiva” non può limitarsi alla conformità con il mercato, ma deve diventare «un sistema di valore complessivo che integra riconoscimento, welfare e formazione continua». Un approccio che mette al centro la persona, con l’obiettivo di creare ambienti di lavoro in cui i talenti possano “fiorire”.
Sulla stessa linea Filippo Poletti, giornalista e LinkedIn Top Voice, secondo cui «la retribuzione resta un elemento importante, ma non basta più. I lavoratori chiedono coerenza tra ciò che viene promesso e ciò che si vive realmente in azienda». L’esperienza della pandemia, secondo Poletti, ha rappresentato un punto di svolta, accelerando il distacco dai modelli tradizionali e favorendo la nascita di nuove priorità.
Un cambiamento profondo che, secondo Gianni Bientinesi, CEO di BIG, porta il lavoro a diventare «un luogo in cui le persone cercano coerenza tra vita privata e professionale». Le aziende, dice, devono ripensare metriche di performance, modelli organizzativi e strumenti di engagement, abbracciando una visione human-centered per restare competitive nel lungo periodo.
La ricerca, condotta su un campione di 1.001 rispondenti rappresentativi per età, genere, livello professionale e area geografica, conferma dunque che il mondo del lavoro sta cambiando – e con esso le aspettative dei lavoratori. Se ieri bastava un buon contratto, oggi servono valori, ascolto e flessibilità. Le imprese che sapranno adattarsi a questa nuova normalità avranno in mano la chiave per attrarre e trattenere i talenti del futuro.