Nel linguaggio dei proclami bellici e delle strette di mano nei vertici Nato si nasconde una cifra che basta da sola a spiegare il peso reale delle promesse italiane: oltre 400 miliardi di euro. È quanto costerebbe in dieci anni, secondo l’ultima analisi di Mil€x – Osservatorio sulle spese militari italiane, l’adeguamento del nostro Paese al nuovo target del 5% del Pil per la spesa militare, ipotesi che potrebbe ricevere luce verde al summit dell’Alleanza atlantica del 23-24 giugno a L’Aja. Un salto che non è solo aritmetico, ma politico, sociale e culturale.
Una corsa a tre cifre
Oggi la spesa italiana per difesa e sicurezza si attesta intorno ai 45 miliardi di euro annui, pari al 2% del Pil (percentuale raggiunta con qualche espediente contabile che ricomprende nella stesso capitolo stipendi e pensioni di corpi come Guardia Costiera e Finanza). Portare la spesa al 5% significherebbe arrivare a 145 miliardi annui entro il 2035. Una progressione che comporterebbe incrementi medi di 10 miliardi ogni anno, per un totale aggiuntivo di 100 miliardi in dieci anni.
Ma l’analisi Mil€x va oltre il dato di flusso annuale. Confrontando il costo complessivo dei prossimi dieci anni con l’attuale trend al 2%, emerge il vero squilibrio: 964 miliardi contro 519, ovvero 445 miliardi in più per sostenere una retorica di riarmo che ha già iniziato a contagiare il dibattito istituzionale.
Crosetto prepara il terreno
Il ministro della Difesa Guido Crosetto non lo nasconde. Nelle sue dichiarazioni pubbliche ha chiarito che, per raggiungere gli obiettivi futuri della Nato, saranno necessarie “nuove risorse finanziarie”. E le cifre non lasciano margine all’ambiguità: il solo passaggio al 4% del Pil (ipotesi che Meloni e Crosetto porteranno come proposta negoziale) comporterebbe comunque oltre 300 miliardi in più rispetto alla linea attuale. La differenza tra i due scenari (4% o 5%) è una forchetta tra 30 e 40 miliardi l’anno di spesa aggiuntiva, ma entrambe le traiettorie condividono un tratto comune: l’incompatibilità strutturale con qualsiasi seria politica sociale, sanitaria, ambientale o educativa.
Il paradosso del vincolo Nato
La narrazione ufficiale parla di “vincolo Nato”, ma il vincolo – come spesso accade – è più ideologico che giuridico. L’obiettivo del 2%, stabilito nel 2014, era dichiaratamente indicativo e non vincolante. Oggi il salto al 5%, se confermato, sarebbe una decisione volontaria dei Paesi membri. Una scelta. E in quanto tale, politicamente responsabilizzante, perché ogni miliardo speso in carri armati e cybersicurezza è un miliardo sottratto a una scuola, un ospedale, un salario minimo.
Chi ci guadagna
A guadagnarci, è facile intuirlo, sarebbe l’industria bellica, nazionale e internazionale. Già oggi, come documentato da Mil€x, sono in corso programmi di riarmo per 73 miliardi, che alimentano il circuito tra governo, aziende della difesa e apparato militare. Il nuovo target Nato diventerebbe l’occasione per blindare questa filiera nei prossimi decenni. Non si tratta di una corsa difensiva, ma di un modello economico alternativo fondato sulla guerra permanente.
Chi ci rimette
Nel quadro attuale, la decisione di portare la spesa militare al 5% del Pil non è mai stata discussa pubblicamente. Nessun voto in Parlamento, nessuna consultazione popolare, nessuna valutazione d’impatto sociale. È una trattativa gestita nei salotti diplomatici, dove il linguaggio della sicurezza serve a mascherare la rinuncia a ogni altro progetto di futuro. Non si tratta di difendere i confini, ma di ridefinire le priorità del Paese nel silenzio delle istituzioni.
Se l’Italia decidesse davvero di investire 100 miliardi in più per rincorrere l’illusione della deterrenza muscolare, sarà bene ricordare – ogni volta che mancheranno le risorse per un pronto soccorso, un congedo parentale o un treno regionale – che quei soldi non sono spariti. Sono stati scelti. E firmati, a mano armata.