Dal 2022 a oggi, Giorgia Meloni ha chiesto la fiducia al Parlamento 91 volte. È un record. Nessun altro governo, negli ultimi vent’anni, ha premuto così spesso quel pulsante d’emergenza che, da eccezione costituzionale, si è trasformato in ordinaria amministrazione. I numeri li ha messi in fila Openpolis: Draghi si era fermato a 55 voti di fiducia, il Conte II a 50, Renzi a 68. Ma più che la quantità, è la frequenza a raccontare una mutazione della forma di governo: la presidente del Consiglio pone in media 2,85 questioni di fiducia al mese, più di Draghi (2,68), più di Conte (2,22). Solo il governo Monti, travolto dalla crisi finanziaria del 2011, si era spinto oltre. Con una differenza: non c’era una maggioranza blindata, ma un’emergenza riconosciuta da tutti.
Il Parlamento come formalità
Il ricorso al voto di fiducia è la spia di un metodo. Non si tratta solo di “serrare i ranghi” della maggioranza. È un espediente per tagliare fuori il Parlamento, impedire modifiche ai testi, sterilizzare il dibattito. Dal 2022, il 37% delle leggi approvate sono conversioni di decreti legge, la percentuale più alta dal 1996. Non si discute, si ratifica: se la fiducia viene bocciata, cade il governo.
In questa legislatura, 38 decreti legge sono stati approvati con doppio voto di fiducia, uno alla Camera e uno al Senato. Mai così tanti. In un sistema che dovrebbe essere parlamentare, l’esecutivo ha assunto un ruolo sovrastante, trasformando i rappresentanti eletti in semplici notai del governo. La Costituzione prevede i decreti legge per “casi straordinari di necessità e urgenza”. Ma l’emergenza è finita da tempo, e la prassi è rimasta. Oggi, anche i provvedimenti più controversi — come il “decreto sicurezza” o le norme sull’Albania e sulla cittadinanza — passano per decreto e fiducia.
Un Parlamento ridotto a pubblico
L’effetto non è solo tecnico. È politico. Con i decreti e la fiducia, si riduce il tempo della discussione, si elimina il confronto pubblico, si spengono le voci discordanti. Il cittadino non ha accesso a un dibattito vero, né in Aula né nel Paese. L’uso disinvolto della decretazione d’urgenza e dei voti di fiducia rende opaco il processo legislativo e indebolisce la capacità di vigilanza dell’opinione pubblica.
Anche le leggi ordinarie approvate fuori dalla logica dell’urgenza evitano i temi sensibili. Tra le 85 leggi non riconducibili a decreti, molte sono ratifiche di trattati internazionali, norme tecniche, disposizioni celebrative. Le leggi “pesanti”, quelle che decidono il senso della politica, passano per il governo, non per il Parlamento.
Tutti i presidi sotto attacco
Il vuoto del Parlamento non è un accidente. È parte di una strategia più ampia di concentrazione del potere. È lo stesso riflesso che porta il governo Meloni ad attaccare i magistrati “che parlano troppo”, i giornalisti “faziosi”, la Corte dei Conti che controlla gli investimenti pubblici, l’Ufficio parlamentare di bilancio che segnala i buchi nelle manovre. Ogni voce autonoma, ogni organismo di controllo è percepito come un ostacolo da indebolire. Ogni limite è un fastidio.
Ma sono proprio queste “istituzioni di garanzia” — Parlamento, stampa, giustizia, Corte dei Conti, UPB — a costituire l’ossatura della democrazia costituzionale. Svuotarle, delegittimarle, umiliarle non è solo un abuso di potere. È una riscrittura silenziosa della democrazia.
Nel Paese che dovrebbe imparare dagli anni bui del passato, il potere esecutivo ha imparato a soffocare il dissenso con gli strumenti della legalità formale. Voti la fiducia, chiudi il Parlamento, zittisci chi controlla. È tutto in regola. Ma non tutto è democratico.