A Gaza, ieri, sono morti altri diciotto palestinesi. Alcuni erano in fila per ricevere aiuti umanitari, altri dormivano in tenda. L’ospedale Al-Quds ha ricevuto oltre 140 corpi in 24 ore e curato 560 feriti. La rete è ancora isolata nel sud della Striscia per il secondo giorno consecutivo, colpita da un raid mirato all’infrastruttura. Queste notizie, che fino a una settimana fa avrebbero spalancato aperture e indignazione, ora faticano a guadagnare spazio tra le righe dei dispacci, soffocate dalla nuova centralità iraniana.
La quotidianità dell’orrore a Gaza non è diminuita. È diventata abitudine. E l’abitudine, si sa, è l’anticamera dell’indifferenza. Nel gioco ottuso delle gerarchie geopolitiche, il massacro a Gaza sembra declassato a “danno collaterale prolungato”, persino mentre Israele estende i bombardamenti su Rafah, Khan Younis, Gaza City. Le stesse zone, gli stessi obiettivi civili, gli stessi corpi mutilati nei sacchi di plastica. Il ragazzo che urla disperato accanto al cadavere del padre ucciso in fila per un pacco alimentare, oggi, non fa più notizia.
Il mondo guarda altrove. E così facendo, lo legittima. Legittima la logica per cui una strage, se reiterata abbastanza a lungo, smette di essere una notizia. E diventa routine. Accettare che Gaza resti uno sfondo silenzioso mentre si negozia tra Teheran e Tel Aviv significa accettare che il dolore palestinese valga meno. Gaza non è la scenografia dei potenti del mondo. Gaza non può divenire l’ennesima guerra a bassa intensità mediatica e politica. La normalizzazione dell’orrore è la più subdola delle complicità: quella che si nasconde dietro lo sguardo distolto.