A Gaza si muore così: con le braccia alzate verso un sacco di farina, colpiti alla testa, al petto. Almeno 474 palestinesi sono stati uccisi mentre cercavano cibo. Sparati, dilaniati, lasciati nelle “zone di distribuzione”, che la Croce Rossa chiama “zone della morte”. È tutto documentato: numeri, feriti, testimonianze. Non è un incidente. È un metodo. La Gaza Humanitarian Foundation, sostenuta da Israele e Stati Uniti, ha sostituito l’UNRWA e piazza i punti di raccolta là dove si spara, dove passano i carri armati, dove si bombarda. Si chiama “aiuto”, ma è una trappola.
Nel frattempo, Trump ha deciso di farsi valere. Ha ordinato il bombardamento dei siti nucleari iraniani, con i B-2 partiti dal Missouri che hanno sorvolato Israele. L’operazione si chiama “Midnight Hammer”: un nome da videogioco per un’azione reale. Tre impianti colpiti, migliaia di vite appese a un filo, la diplomazia calpestata. Sono stati gli Stati Uniti a farlo, ma con la regia di Tel Aviv. Netanyahu comanda, Trump esegue. E mentre il mondo guarda all’Iran, a Gaza si continua a morire nel silenzio. I colpi arrivano anche lì. I corpi si contano anche lì. Le urla si sentono solo se si vuole ascoltarle.
Il Papa all’Angelus ha parlato di “grido di umanità che invoca la pace” e ha avvertito: “Non esistono conflitti lontani”. Ma Trump e Netanyahu, invece di ascoltare, si aggrappano a Dio per giustificare il sangue. Lo usano, lo sventolano, lo invocano. Uno dice “God bless America”, l’altro parla di “terra promessa”. Se Dio c’è, non è con loro. Se Dio c’è, è steso per terra, accanto ai sacchi di farina.