La vendetta degli ayatollah è iniziata: ecco i possibili scenari e la posizione dei suoi alleati Cina e Russia

La vendetta degli ayatollah è iniziata: ecco i possibili scenari ora e la posizione degli alleati dell'Iran ossia Cina e Russia

La vendetta degli ayatollah è iniziata: ecco i possibili scenari e la posizione dei suoi alleati Cina e Russia

Dopo gli attacchi degli Stati Uniti al programma nucleare iraniano, che segnano l’ennesima fase di escalation del conflitto mediorientale, il mondo si interroga su quale sarà la vendetta che il regime degli ayatollah potrebbe intraprendere e, soprattutto, su come intendano muoversi i pochi – ma influenti – alleati di Teheran: la Russia di Vladimir Putin e la Cina di Xi Jinping.

Com’è facilmente intuibile, la prima risposta dell’Iran è stata all’insegna della diplomazia, con il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi che, prima di partire per Mosca, si è limitato a denunciare il “comportamento estremamente pericoloso, anarchico e criminale” da parte degli Stati Uniti di Donald Trump, evitando però di precisare se, come e quando l’esercito della Repubblica islamica risponderà.

Sembra evidente che si tratti di mere parole di circostanza: l’Iran è ormai con le spalle al muro e una qualche risposta dovrà darla anche – e soprattutto – per non mostrarsi debole davanti al proprio popolo.

La vendetta degli ayatollah: ecco i possibili scenari dopo l’attacco USA e la posizione di Cina e Russia

Stando a quanto trapela da fonti di intelligence occidentali, Teheran – dopo l’attacco alle basi Usa – ha davanti a sé quattro opzioni. La prima è una risposta forte ma circoscritta contro Israele. In sostanza, l’Iran intensificherebbe i lanci di missili su Tel Aviv, Gerusalemme e Haifa, coordinandosi con le forze sciite e filo-iraniane della regione, ossia quel che resta di Hezbollah in Libano e i ribelli Houthi dello Yemen. Una soluzione che per ora è stata ritenuta troppo soft, ma che potrebbe essere riconsiderata nei prossimi giorni, come fase successiva.

La seconda possibilità è reiterare quella che è stata scelta come prima mossa: colpire una o più basi militari americane in Medio Oriente con missili e droni, esattamente come successo ieri in Qatar, Iraq e Siria. Poteva sembrare l’opzione più rischiosa, ma in realtà potrebbe non esserlo: le forze iraniane difficilmente riuscirebbero a infliggere danni seri, e un attacco simbolico potrebbe servire solo a “salvare la faccia” senza provocare una risposta militare diretta da parte di Washington.

La terza reazione possibile è la mobilitazione delle cellule jihadiste sciite “dormienti” presenti in tutto l’Occidente, per far ripiombare il mondo – e in particolare gli USA – nell’incubo del terrorismo islamico. La quarta e ultima opzione, probabilmente la più grave e dagli esiti incerti, è il blocco totale del traffico marittimo nello Stretto di Hormuz. Il Parlamento iraniano ha già approvato questa misura, che potrebbe causare enormi tensioni nell’economia globale, dato che circa il 20% del petrolio mondiale transita proprio da quel piccolo lembo di mare. Una minaccia che terrorizza i mercati e gli Stati Uniti, che hanno già messo in guardia Teheran contro un simile passo, minacciando una risposta militare. Anche la Cina, principale beneficiaria del transito di greggio nell’area, ha espresso preoccupazione.

Da Putin a Xi, la posizione degli alleati di Khamenei

In attesa che la guida suprema Ali Khamenei sciolga il nodo della controffensiva iraniana, iniziano a muoversi – seppur con circospezione – gli alleati di Teheran. Il ministro Araghchi si è recato a Mosca, dove ha incontrato Vladimir Putin per chiedere “maggiore supporto” contro l’offensiva congiunta di Israele e Stati Uniti. La risposta dello zar, però, è stata piuttosto fredda. Il leader del Cremlino si è limitato a ricordare che tra Russia e Iran non esiste un patto di mutua assistenza militare, aggiungendo che “l’aggressione non provocata contro l’Iran non ha motivi né giustificazioni” e che “la Russia sta facendo sforzi per sostenere il popolo iraniano”.

Una posizione soft che, secondo diversi analisti, sarebbe la prova di un accordo tacito con Donald Trump: Mosca resterebbe neutrale nel conflitto mediorientale, mentre Washington si impegnerebbe a disimpegnarsi dal fronte ucraino.

Quanto alla Cina, la situazione appare ancora più complessa. Dall’inizio dell’offensiva israeliana, le dichiarazioni ufficiali da Pechino sono state rare e concentrate sul richiamo al “ritorno al tavolo delle trattative” per porre fine a una “guerra insensata” ed evitare scosse al sistema finanziario globale.

Un silenzio strategico che avrebbe un duplice significato: da un lato, la Cina vuole mostrarsi come una superpotenza responsabile e capace di mediare; dall’altro, potrebbe cogliere l’occasione di una distrazione occidentale sulla crisi mediorientale per regolare una volta per tutte i conti con Taiwan.