Carcere di Prato, l’inchiesta choc: rivolte, torture e stupri da parte dei detenuti. Il Procuratore Tescaroli: “Intollerabile”

Due rivolte, stupri, torture e telefoni: la Dogaia è fuori controllo. Lo Stato tace, parla solo la magistratura

Carcere di Prato, l’inchiesta choc: rivolte, torture e stupri da parte dei detenuti. Il Procuratore Tescaroli: “Intollerabile”

Due rivolte in un mese, un’inchiesta che parla apertamente di “sistema criminale pervasivo”, violenze sessuali sistematiche, telefoni clandestini, torture. La Casa Circondariale “La Dogaia” di Prato non è più un carcere, ma il simbolo del crollo istituzionale dietro le sbarre. La Procura della Repubblica, guidata da Luca Tescaroli, non usa mezzi termini: “situazione intollerabile”, “realtà fuori controllo”, “necessità di sottrarre ai detenuti il controllo del carcere”.

La risposta è arrivata con perquisizioni a tappeto, un’unità interforze formata da Squadra Mobile, Carabinieri, Guardia di Finanza e Nucleo Investigativo della Penitenziaria. Ma i fatti raccontano che ormai la polveriera è esplosa.

Doppio focolaio

Il 4 giugno cinque detenuti – italiani, marocchini e libici – rifiutano di rientrare in cella. L’intenzione è chiara: “stasera si fa la guerra”, “si muore solo una volta: o noi o voi”. Brandiscono spranghe, grappa bollente, cacciaviti e forbici. Sei agenti della penitenziaria vengono minacciati e aggrediti. Non è un gesto estemporaneo: è una dichiarazione di guerra.

Il 5 luglio, pochi giorni dopo una maxi-perquisizione, almeno dieci detenuti si barricano nella prima sezione di Media Sicurezza. Rovesciano i carrelli del vitto, tentano di appiccare incendi, usano brande come arieti per sfondare i cancelli. Solo l’intervento delle unità antisommossa riesce a contenere l’assedio.

In un anno sono stati sequestrati 41 telefoni, 3 sim e un router. Ma non basta. I telefoni continuano ad attivarsi anche dopo i blitz. Un detenuto in Alta Sicurezza è riuscito a pubblicare su TikTok immagini dalla sua cella. Il sospetto – ormai qualcosa di più – è che ci siano complicità interne. “Condotte collusive” è il termine scelto dalla Procura. In un carcere senza comandante, con turni massacranti e personale demoralizzato (e incolpevole), la vigilanza è evaporata. I detenuti agiscono con organizzazione, impunità e una rete di rifornimento che sfida ogni controllo.

Corpi martoriati

Il peggio è ciò che avviene in silenzio. Due i casi sotto i riflettori dell’inchiesta. Nel primo, settembre 2023, un detenuto brasiliano violenta per giorni il compagno di cella pachistano, sotto minaccia di morte. Nel secondo, gennaio 2020, due detenuti torturano un giovane omosessuale e tossicodipendente alla sua prima esperienza in carcere: percosse, violenze sessuali di gruppo, colpi alla testa con pentole roventi. Le lesioni fisiche si sommano a un trauma psicologico protratto per mesi. Per entrambi i casi è in corso l’iter giudiziario.

Il carcere, in questi episodi, diventa un ecosistema predatorio: i più deboli scelti come prede, in una gerarchia informale regolata dalla brutalità. Nessuna funzione rieducativa, nessuna tutela della dignità. Solo terrore.

C’è un giudice in Toscana

A parlare oggi è quasi solo la magistratura. I vertici dell’amministrazione penitenziaria tacciono, il Ministero della Giustizia guarda altrove. Il procuratore Tescaroli ha chiesto misure straordinarie di sicurezza anche all’esterno del carcere, temendo che il caos possa tracimare. Le sue parole non sono solo una diagnosi, ma un atto d’accusa: contro l’abbandono istituzionale, contro un sistema che ha lasciato che il controllo evaporasse, contro l’ipocrisia di chi, da Roma, parla di sicurezza mentre si consuma l’ennesimo naufragio dello Stato dentro le sue stesse mura.

La Dogaia è solo il segnale di una crisi nazionale. Fingere che sia un fatto locale serve solo a non disturbare la narrazione. Intanto, dietro quelle mura, l’inferno ha già vinto.