Dice Netanyahu che dopo la tregua si tornerà ad “assediare Gaza”. Non è una minaccia. È un piano: dividere la popolazione, spingerla a sud, trasformare il nord della Striscia in un campo di battaglia, il sud in un recinto. Ieri l’ennesimo ordine: evacuare immediatamente Gaza City e Jabalia. Un ultimatum lanciato a chi non ha più nulla da evacuare, se non il proprio corpo esausto, se ancora in vita.
Nel frattempo, le bombe piovono sui campi profughi. A Shati cinque morti, nel quartiere Remal sei uccisi sotto le tende degli sfollati. Secondo il ministero della Sanità locale, oltre 58 mila le vittime palestinesi da ottobre 2023, più della metà donne e bambini. La cifra viene contestata da Israele, ma è difficile controbattere le immagini dei cadaveri di bambini in fila per l’acqua. L’Egitto parla apertamente di “oltre cento morti al giorno solo per cercare gli aiuti”. L’Europa si mostra “preoccupata”, ma a Gaza continuano a mancare carburante, medicine, cibo. E pace.
L’evacuazione forzata e la distruzione sistematica delle infrastrutture civili configurano un intento genocidario sotto gli occhi del mondo. L’Onu parla di “crimini”, le chiese cristiane denunciano attacchi dei coloni a Taybeh, una fondazione belga chiede l’arresto di un soldato israeliano. Netanyahu, invece, promette la prosecuzione del conflitto come se fosse un diritto sovrano. Trump riduce Gaza a una trattativa immobiliare: “una soluzione nella prossima settimana”. Le bombe, intanto, non si fermano.
Tra le vittime di ieri anche il fratello di un medico palestinese che lavora in Italia: era andato a cercare cibo. Gaza muore e il mondo prende appunti. Sul metodo.