Lavoro, in Europa non basta più: il 26% dei cittadini Ue costretto a tagliare sui beni essenziali

Dal cibo alle bollette, un lavoratore europeo su quattro taglia sui beni essenziali. Il nuovo rapporto LiveCareer lancia l'allarme

Lavoro, in Europa non basta più: il 26% dei cittadini Ue costretto a tagliare sui beni essenziali

C’è un’Europa che lavora e taglia. Taglia le spese superflue, poi quelle importanti, infine quelle necessarie. Secondo un nuovo rapporto di LiveCareer, piattaforma specializzata in orientamento professionale, il 26% dei lavoratori europei è costretto oggi a ridurre anche i beni essenziali: cibo, utenze, affitti. Non un dato marginale, ma il segno di un sistema in affanno. Il sondaggio, condotto su un campione di mille persone tra Germania, Francia, Spagna e Italia, restituisce l’immagine nitida di un continente in cui l’ascensore sociale è fermo, il salario reale è in retromarcia, e l’impegno lavorativo non basta più a garantire la sopravvivenza.

Il 64% dei rispondenti si dichiara favorevole all’introduzione di un reddito di base universale. Non per ideologia, ma per necessità: solo il 18% afferma che il proprio stipendio ha tenuto il passo con l’inflazione, mentre il 34% denuncia di essere stato abbandonato a una progressiva erosione del potere d’acquisto. E così, per arrivare a fine mese, si cercano lavori extra (11%), si accendono nuovi debiti (8%), si ridimensionano i progetti di vita. Il 14% rinuncia alla riqualificazione professionale per motivi economici, il 5% è tornato a vivere con i genitori, il 4% ha rinviato la decisione di allargare la famiglia.

La fine della promessa meritocratica

Il dato più significativo del rapporto, però, è quello che riguarda la percezione del lavoro come strumento di emancipazione. Il 69% degli intervistati dubita che l’impegno professionale garantisca sicurezza economica. È la smentita definitiva di una delle promesse fondative del modello europeo post-bellico, erosa negli anni dalla precarietà strutturale, dalla compressione salariale, dall’aumento del costo della vita. Il 59% prova ansia finanziaria almeno una volta a settimana, quasi uno su due teme un’ondata di licenziamenti nel 2025, e il 70% è preoccupato per l’arrivo di una nuova recessione. In questo clima, la paura prende il posto dell’ambizione.

Il 53% dichiara che potrebbe sopravvivere senza stipendio per non più di tre mesi. Eppure, nonostante le difficoltà, il 59% non sarebbe disposto a trasferirsi per un impiego migliore: un segno di immobilità territoriale, radicamento locale o, forse, semplice consapevolezza che “meglio” non è una prospettiva così realistica. Solo il 12% investe in formazione per adattarsi ai cambiamenti in arrivo. Il resto guarda l’intelligenza artificiale con inquietudine crescente: il 44% teme un impatto negativo sul proprio lavoro, e il 5% dichiara che questo impatto è già in corso.

Una crisi generazionale e sistemica

Non è solo la crisi di un’economia in affanno. È un cortocircuito politico e culturale che attraversa generazioni e confini nazionali. Il 91% dei lavoratori europei teme che le tensioni geopolitiche faranno aumentare ulteriormente il costo della vita. L’inflazione è il primo pensiero per il 59% degli intervistati, seguita dall’instabilità globale (34%), dalle spese sanitarie (24%), dall’assenza di risparmi (23%) e dal costo dell’alloggio (21%). Il timore di perdere il lavoro riguarda un quinto della popolazione attiva.

Secondo Jasmine Escalera, esperta di carriera di LiveCareer, “cresce l’ansia per il futuro, sia finanziario che professionale. Sempre più persone chiedono soluzioni collettive, che vadano oltre la responsabilità individuale. La pressione economica sta spingendo verso riforme sistemiche”. È un messaggio chiaro, che disegna una frattura tra un presente insostenibile e un futuro ancora senza risposte. Il lavoro, da solo, non basta più. La fatica, da sola, non basta più. E continuare a far finta che sia una questione individuale serve solo a rinviare l’inevitabile: o si cambia sistema, o il sistema smetterà di reggere.