Una Piattaforma nazionale online, una media statistica e una conferenza stampa. Così il governo ha deciso di raccontare il collasso del Servizio Sanitario Nazionale. Il nuovo portale dedicato ai tempi di attesa, presentato come uno strumento di trasparenza, in realtà oscura tutto ciò che conta: non indica i tempi massimi reali, non consente di sapere dove si aspetta di più, non permette di confrontare le strutture.
“Una prima osservazione sui dati disponibili dalla Piattaforma è che, nonostante i dati vengano trasmessi dalle regioni, questi sono disponibili soltanto a livello nazionale – scrive l’Osservatorio conti pubblici italiani dell’Università cattolica, diretto da Carlo Cottarelli -. Non potendo consultare i tempi nelle specifiche strutture o perlomeno a livello locale o regionale, la Piattaforma risulta quindi ancora poco utile per il cittadino”.
La fotografia ufficiale dei primi mesi del 2025 è un quadro in cui il ritardo si normalizza, la rinuncia si privatizza, la responsabilità evapora.
Dietro la piattaforma si muove un impianto normativo presentato come riforma strutturale. Il decreto-legge 73/2024 ha previsto misure in gran parte non attuate. L’Organismo nazionale di controllo è stato formalmente istituito, ma non ha ancora strumenti per intervenire. Il Centro Unico di Prenotazione (Cup) continua a escludere molti operatori, soprattutto tra i privati accreditati. E il tetto di spesa per il personale sanitario, che doveva essere superato, resta intatto. Nessun nuovo medico, nessun infermiere in più.
La piattaforma, così com’è, serve soprattutto a evitare lo scontro con le Regioni. Non indica dove si accumulano i ritardi, non dice quali Asl falliscono sistematicamente gli obiettivi. È una trasparenza apparente costruita per non disturbare nessuno. Dietro l’aggregazione statistica, il diritto alla salute diventa una scommessa geografica.
Dati e disuguaglianze
Il tempo medio nazionale per una visita specialistica, come scrive businessonline.it analizzando i dati raccolti dalla Piattaforma nazionale liste d’attesa tra gennaio e maggio 2025, varia tra 105 e 126 giorni; solo l’8% delle prestazioni viene erogato entro dieci giorni; oltre il 21% dei pazienti aspetta più di sei mesi; per le prestazioni differibili o programmabili – la maggioranza – la soglia del 75% di prestazioni nei tempi è pura utopia. I tempi massimi non sono indicati, ma dai dati raccolti da Federconsumatori e stampa locale emergono attese fino a 330 giorni per una colonscopia in Lombardia, 463 giorni per un elettrocardiogramma programmato a Milano, 748 per una visita ginecologica in Friuli.
Nel frattempo, quasi 4 milioni di persone nel 2024 hanno rinunciato a una prestazione per i tempi troppo lunghi. Un altro 5% ha rinunciato per motivi economici. La somma racconta una realtà fuori controllo: chi può paga, chi non può aspetta. Oppure rinuncia. E anche il meccanismo di tutela previsto dalla legge – che obbligherebbe le strutture a garantire la prestazione in intramoenia o presso il privato convenzionato senza costi aggiuntivi – si trasforma in una giungla burocratica. Ogni Regione ha regole diverse. I Cup non rilasciano certificazioni. Il paziente, lasciato solo, deve dimostrare di essere stato abbandonato.
Un diritto trasformato in eccezione
Il decreto-legge, nella sua architettura, ha replicato il vizio di origine del sistema: affastellare norme senza dotarle di strumenti, promettere obiettivi senza costruire le condizioni per raggiungerli. Il risultato è una riforma annunciata che produce esattamente il contrario di ciò che dichiara. Una sanità pubblica che non riesce a garantire i tempi è una sanità che non garantisce più niente. Non misura le attese: misura quanto ancora possiamo aspettare.