Alle 8.15 di questa mattina, a Hiroshima, una città ancora segnata da un silenzio incandescente, sono risuonate le parole del sindaco Kazumi Matsui: «L’umanità ignora le sue stesse tragedie. L’accettazione del nucleare come deterrente porterà nuove catastrofi». Ottant’anni dopo il bombardamento atomico che uccise almeno 140.000 persone, il monito si leva ancora una volta tra i resti della cupola dell’A-bomb Dome e i volti sempre più rari dei sopravvissuti, gli hibakusha, oggi con un’età media di oltre 86 anni.
Ma il paradosso è che, mentre la loro memoria si spegne, gli arsenali si moltiplicano. Il mondo dispone oggi di oltre 12.200 testate nucleari, di cui 3.900 pronte all’uso immediato e almeno 2.100 in stato di allerta operativa. Significa che in ogni istante ci sono migliaia di bombe nucleari – molte delle quali strategiche – pronte a essere impiegate in pochi minuti. Se si considera la potenza media degli ordigni odierni, l’arsenale globale equivale a più di 80.000 bombe come quella sganciata su Hiroshima.
La banalità dell’annientamento
Nel 1945 bastarono 15 kilotoni per radere al suolo una città. Oggi, una singola testata B83 americana può raggiungere 1,2 megatoni, 80 volte Hiroshima. Le nuove armi sono più potenti, ma anche più utilizzabili: termonucleari, miniaturizzate, montate su missili ipersonici e progettate per distruggere con precisione chirurgica. L’effetto di questa trasformazione non è solo tecnico, ma strategico: abbassa la soglia psicologica dell’impiego, alimenta la convinzione che una guerra nucleare limitata sia possibile.
È la fine del vecchio equilibrio del terrore. Dopo la Guerra Fredda, il numero di testate aveva toccato un minimo storico nel 2017, con circa 9.200 armi operative. Da allora, la tendenza si è invertita. Il riarmo è silenzioso, ma reale. Cina, India, Pakistan e Corea del Nord aumentano i propri arsenali. La Cina, in particolare, aggiunge circa 100 testate l’anno e punta a 1.500 entro il 2035. Russia e Stati Uniti continuano a detenere insieme quasi l’87% delle testate mondiali.
L’architettura del disarmo è crollata
Il Trattato INF non esiste più, il New START è stato sospeso dalla Russia nel 2023 e scadrà nel 2026 senza che siano in corso negoziati per un rinnovo. Nessuna potenza nucleare – né i suoi alleati – ha aderito al Trattato sulla proibizione delle armi nucleari (TPNW) entrato in vigore nel 2021. Anzi: mentre il trattato è ignorato, la NATO, tramite il suo segretario generale Stoltenberg, chiede di «rafforzare la deterrenza nucleare» – proprio nei giorni in cui si commemorano Hiroshima e Nagasaki.
L’Europa ospita oggi circa 100 bombe nucleari B-61 statunitensi, di cui 35 in Italia, nelle basi di Ghedi e Aviano. Si tratta di armi tattiche che, per potenza e precisione, possono essere impiegate in scenari regionali: conflitti come quello in Ucraina o in Medio Oriente non sono più separati dalla minaccia atomica. Come ha detto oggi Matsui, «accettare il nucleare significa rinunciare alla civiltà. E il tempo per evitarlo sta finendo».
Hiroshima come simulacro
Nell’anniversario che probabilmente sarà l’ultimo a vedere un numero consistente di hibakusha in vita, il rischio non è l’oblio. È la distorsione della memoria. Hiroshima viene celebrata, ma svuotata di significato. Le colombe bianche si alzano in volo nel cielo giapponese, mentre nel resto del mondo si preparano nuovi vettori, si aggiorna il software dei missili balistici, si investono oltre 100 miliardi di dollari l’anno in modernizzazione.
In un documento letto oggi durante la cerimonia, la rete Nihon Hidankyo ha parlato di una «corsa contro il tempo», denunciando come la memoria dei sopravvissuti stia svanendo mentre la minaccia nucleare cresce. Le parole del sindaco Matsui, pronunciate davanti ai rappresentanti di 120 Paesi, sono un testamento politico: «Combattere per l’eliminazione delle armi nucleari è il minimo che possiamo fare per coloro che sono morti. E per chi non è ancora nato». L’umanità ha dimenticato la lezione. O forse, peggio, ha imparato a conviverci.