L'Editoriale

L’egemonia ai tempi di Meloni

Il prezzo di questa torsione, con lo scontro costante cercato da Meloni, sarà la qualità della nostra democrazia.

L’egemonia ai tempi di Meloni

“Processate anche me”: non è una difesa, è un attacco. Giorgia Meloni non chiede di essere giudicata, ma esige che il giudizio si trasformi in plebiscito. Nella crisi innescata dal caso Almasri, la presidente del Consiglio ha scelto la linea dello scontro. Ha rigettato il terreno della legalità, ha rifiutato la grammatica istituzionale, e ha ribaltato la cornice: chi denuncia è il colpevole, chi indaga è un sabotatore, chi difende il diritto è un nemico della patria.

Non è la prima volta che accade nella storia italiana. Cento anni fa, Benito Mussolini affrontava il baratro del delitto Matteotti con una mossa retorica simile: “Se il fascismo è un’associazione a delinquere, io ne sono il capo!”. Fu l’inizio della dittatura. La somiglianza non è nelle intenzioni, ovviamente, ma nella struttura. Quando il potere si trova sotto accusa, la strategia più efficace non è difendersi: è rilanciare, riformulare il campo di gioco, chiamare il popolo alla guerra contro le istituzioni.

La sfida di Meloni al Tribunale dei ministri, che ha chiesto l’autorizzazione a procedere per Piantedosi, Nordio e Mantovano, è servita su un vassoio di patriottismo tossico e narrazione vittimistica. “È assurdo che io venga esclusa”, ha detto la premier. Non è una richiesta di giustizia: è una richiesta di appartenenza. Chi salva i ministri salva lei. Chi non lo fa, tradisce la patria.

La coincidenza tra leader e nazione non è un effetto collaterale: è il fine. Ogni parola pubblica di Meloni punta a creare un cortocircuito: lei è l’Italia, e chi la critica ne offende l’immagine. Anche l’atto – del tutto legittimo – con cui Avs ha segnalato il governo alla Corte Penale Internazionale per la complicità nei bombardamenti a Gaza viene narrato come una lesa maestà. “Cercano il soccorso esterno”, dice. Come se appellarsi a un organo di giustizia internazionale, ratificato dall’Italia stessa, fosse un atto di insubordinazione. Come se l’opposizione non fosse parte della democrazia, ma il suo tradimento.

La retorica meloniana si alimenta di un eterno duello tra “noi” e “loro”: noi, i patrioti; loro, gli avversari interni ed esterni, alleati in una trama per sabotare il governo del popolo. Una dinamica che echeggia la paranoia costitutiva del fascismo: la nazione assediata, l’élite corrotta, il potere giudiziario come braccio armato dell’inciucio. Solo che oggi i manganelli sono parlamentari, e le minacce si mascherano da legittima difesa.

Nel caso Almasri, l’Italia ha consegnato un ricercato internazionale alla Libia senza rispettare le procedure previste dallo Statuto di Roma. Un atto che infrange non solo le regole giuridiche, ma la credibilità internazionale del nostro Paese. Eppure, per Meloni, la colpa è di chi chiede spiegazioni. È un modello perfettamente funzionante: la legalità viene accusata di ostacolare la sovranità, i tribunali sono dipinti come strumenti di lotta politica, e l’opinione pubblica è polarizzata in amici e nemici.

Nel suo post su Facebook, Meloni riassume questa logica in una frase-chiave: “Non riuscendo a batterci in patria, cercano i giudici”. Il diritto diventa sospetto, la procedura è un intralcio, il dissenso è una delegittimazione. È la versione istituzionale della cancel culture autoritaria: non si accetta la complessità, non si sopporta il conflitto democratico. Si vuole soltanto la conferma, la fedeltà, l’applauso.

La storia, tuttavia, insegna che non basta vincere una crisi trasformandola in consenso. Mussolini, dopo il 3 gennaio 1925, si assicurò il controllo assoluto. Ma quella fu la morte della democrazia. Meloni non può (e forse non vuole) seguire lo stesso destino. Ma i metodi impiegati, anche nella cornice democratica attuale, pongono interrogativi cruciali: quanto può reggere uno Stato in cui la legalità è trattata come una nemica? Quanto può durare una Repubblica che tollera la sistematica deformazione del dibattito pubblico in confronto tribale?

Le istituzioni, finché reggono, sono più forti della retorica. Ma il prezzo di questa torsione sarà la qualità della nostra democrazia. Non è in gioco solo il destino di tre ministri, né l’equilibrio tra governo e magistratura. È in gioco la possibilità che, in Italia, si possa ancora dissentire senza essere accusati di tradimento.