L’Employment Outlook 2025 dell’Ocse non lascia margini di ambiguità: l’Italia è il Paese più esposto tra i 38 membri all’impatto del declino demografico. Da qui al 2060, la popolazione in età lavorativa crollerà del 34%, un’erosione di circa dodici milioni di persone. Il ritmo della riduzione è quattro volte superiore alla media Ocse.
L’attuale apparente “piena occupazione” maschera un paradosso. I livelli record di partecipazione al lavoro sono sostenuti soprattutto dai lavoratori più anziani, trattenuti dalle riforme pensionistiche, ma destinati a uscire in massa nei prossimi anni. Le nuove coorti, numericamente ridotte da decenni di bassa natalità, non basteranno a sostituirli. È il picco finale prima di una caduta demograficamente garantita.
Produttività ferma, Pil in caduta
Se la produttività dovesse restare sui valori medi degli ultimi anni (+0,31% annuo), il Pil pro capite subirebbe una contrazione media dello 0,5% l’anno, pari a un -22% cumulato al 2060. Lo scenario opposto – crescita della produttività all’1,34% annuo – permetterebbe solo di mantenere invariato il tenore di vita. Ma per ottenere quel ritmo servirebbe un’accelerazione mai registrata negli ultimi due decenni, con investimenti e innovazione che il sistema produttivo, frammentato e sotto-capitalizzato, oggi non sembra in grado di generare.
Le cause del collasso sono strutturali. Il tasso di fecondità totale è sceso a 1,18 figli per donna, tra i più bassi dell’Ocse, con appena 370mila nascite nel 2024 e un’età media delle madri di 32,6 anni. L’invecchiamento è tra i più rapidi al mondo: un anziano ogni 2,4 lavoratori oggi, quasi uno ogni 1,3 entro il 2060. Il saldo migratorio positivo attenua ma non annulla il declino, anche perché l’apporto demografico degli stranieri si riduce e la “fuga dei cervelli” priva il Paese di capitale umano qualificato.
Divari strutturali e Sud Italia in ritirata
A peggiorare il quadro è il cronico sottoutilizzo del lavoro disponibile. Il tasso di occupazione complessivo è al 62,9%, quasi otto punti sotto la media Ocse. Il divario di genere è tra i più alti in Europa: il tasso di occupazione femminile si ferma al 49%, con una concentrazione in settori a bassa retribuzione e un’alta incidenza di part-time involontario. I giovani Neet sono 1,34 milioni (16,1% della fascia 15-29 anni), con picchi nel Mezzogiorno superiori al 35%, a testimonianza di una frattura territoriale profonda che alimenta esclusione sociale ed emigrazione interna. In intere aree del Sud, la perdita di capitale umano giovanile è ormai strutturale, accelerando il declino economico locale.
La stagnazione della produttività è il vero collo di bottiglia: scarsa intensità di capitale, prevalenza di microimprese incapaci di economie di scala, disallineamento tra competenze e fabbisogni produttivi. Sul fronte salariale, l’Italia ha registrato dal 1990 al 2023 un calo reale del 3,4%, mentre Francia e Germania crescevano di circa il 30%. L’erosione del potere d’acquisto, accentuata dall’inflazione post-pandemica, rischia di indebolire ulteriormente la coesione sociale e la domanda interna.
L’Ocse indica quattro direttrici d’azione: mobilitare donne e giovani oggi inattivi; rilanciare la produttività con investimenti in capitale umano e innovazione; riformare welfare e pensioni per garantire sostenibilità; sviluppare una politica migratoria strutturale. Ma i dati dicono che senza una strategia integrata – servizi per l’infanzia diffusi, formazione tecnica e scientifica, politiche attive mirate, integrazione tra scuola e lavoro – il rischio è quello di un “declino gestito”: un Paese più vecchio, più povero, meno influente. Con una finestra temporale per intervenire che si restringe ogni anno.