L’8 agosto 2025 il Tribunale civile di Torino, con la sentenza n. 3818/2025, ha stabilito che l’organizzazione dell’Ufficio Immigrazione produceva discriminazione diretta nell’accesso alla procedura di asilo. Una violazione accertata in termini individuali e collettivi. Il verdetto ordina di riorganizzare il servizio «sul modello Milano» entro quattro mesi, vieta le code notturne, impone un sistema di prenotazione trasparente e condanna il Ministero dell’Interno – in solido con la Questura – al pagamento di 13.000 euro di spese legali. Il Viminale ha annunciato ricorso.
La prova di un modello inaccessibile
Il caso nasce da una class action di 18 richiedenti asilo, sostenuti da Asgi e Cgil, per contestare un sistema organizzativo che rendeva di fatto impossibile presentare la domanda di protezione. Le evidenze raccolte documentano attese di giorni all’aperto, assenza di servizi essenziali, ingressi regolati da criteri opachi e discrezionali. Il Tribunale ha qualificato come “mortificanti” le condizioni riservate agli utenti, accertando che l’assenza di un sistema di prenotazione e la selezione arbitraria all’ingresso costituivano una barriera invalicabile. Non rileva l’intenzione soggettiva dell’amministrazione: basta l’effetto oggettivo di una prassi che impedisce a una categoria definita – i cittadini stranieri – di esercitare un diritto previsto dalla legge.
Sei Questure sotto i riflettori giudiziari
Torino è parte di un quadro più ampio. Negli ultimi tre anni almeno altre cinque Questure – Roma, Parma, Bologna, Monza e Verona – sono state destinatarie di provvedimenti giudiziari per ostacoli illegittimi nell’accesso alla protezione internazionale. A Roma, dal 2023 al 2025, ordinanze hanno imposto di formalizzare domande anche per detenuti e titolari di “protezione speciale”, censurando l’assenza di sistemi di prenotazione e le code notturne. A Parma, nel 2023, il Tribunale di Bologna ha dichiarato illegittimi i ritardi che impedivano l’accesso all’accoglienza. A Monza e Brianza, nel 2024, la formalizzazione è stata ordinata dopo un anno di inerzia. A Verona, lo stesso anno, il Tribunale ha ridotto da otto mesi a 45 giorni l’attesa per un appuntamento. In Veneto sono in corso azioni collettive per ritardi sistematici superiori ai tre mesi.
Il quadro normativo
Il quadro normativo è chiaro. L’articolo 26 del d.lgs. 25/2008 impone la verbalizzazione della domanda entro tre giorni, prorogabili a dieci in casi eccezionali. Gli articoli 4 e 22 del d.lgs. 142/2015 garantiscono il rilascio del permesso provvisorio e il diritto al lavoro dopo 60 giorni dalla formalizzazione. Le prassi censurate ignorano sistematicamente questi termini, imponendo richieste di documenti non previsti – come il passaporto o la dichiarazione di ospitalità – e ritardando il rilascio del titolo provvisorio, con effetti diretti sull’accesso al lavoro e all’accoglienza. La giurisprudenza europea (Corte di giustizia UE, causa Danqua) vieta modalità che rendano “in pratica impossibile o eccessivamente difficile” l’esercizio del diritto d’asilo.
La catena delle responsabilità
La competenza operativa è della Questura, responsabile della ricezione e verbalizzazione delle domande. La responsabilità politica e strategica ricade sul Ministero dell’Interno, chiamato a garantire risorse, linee guida e monitoraggio. La condanna di Torino ha accertato il fallimento di entrambi i livelli: l’organizzazione locale incapace di garantire l’accesso, il centro inerte di fronte a un sistema inadeguato. Il sottodimensionamento degli organici – circa il 30% in meno rispetto alle dotazioni previste – e l’assenza di una pianificazione strutturale alimentano prassi di esclusione già radicate.
Un costo sociale e istituzionale
Alle spese legali e ai risarcimenti si sommano costi indiretti: emergenza abitativa, esclusione dal lavoro regolare, impossibilità di accedere alla sanità. Per i richiedenti asilo, la mancanza di un permesso valido o della ricevuta della domanda significa vivere in un limbo giuridico, esposti a sfruttamento e marginalità. Per lo Stato, significa un contenzioso crescente e una perdita di credibilità istituzionale.
La sentenza di Torino, con il richiamo esplicito al “modello Milano” come parametro di legalità, è un precedente che smentisce la giustificazione dell’eccessivo carico di lavoro. Dimostra che, a parità di norme, un’organizzazione rispettosa dei diritti è possibile. La scelta ora è politica: intervenire per riformare o continuare a difendere in appello un sistema già dichiarato illegittimo.