«Io odio i miei avversari e non voglio il meglio per loro». È con questa frase, pronunciata durante il funerale di Charlie Kirk domenica scorsa a Phoenix, che Donald Trump ha reso inutile ogni esercizio accademico sull’origine dell’ostilità politica. Nessun incidente linguistico, nessuna esasperazione della polemica: il presidente degli Stati Uniti ha trasformato l’odio in dichiarazione di intenti, in codice morale da ostentare di fronte al suo pubblico. Non un sottotesto, ma la regola del gioco.
Il dato di contesto è chiaro. Negli Stati Uniti un bambino su 31 riceve una diagnosi di disturbo dello spettro autistico: Trump ne ha fatto il pretesto per teorie senza basi scientifiche, così come ora la morte di Kirk diventa l’occasione per canonizzare il conflitto permanente. È la stessa finestra di Overton applicata al linguaggio politico: normalizzare l’inimicizia come segno di autenticità, legittimare l’aggressività come arma identitaria.
La traduzione italiana: Salvini e Meloni
In Italia, la destra di governo non ha mai nascosto di aver importato lo schema. Matteo Salvini ha fatto dell’ostilità il marchio della sua comunicazione: dalle “ruspe” per abbattere i campi rom alle campagne sui “porti chiusi”, fino al lessico contro le Ong definite “taxi del mare”. Una retorica che non rimane confinata agli slogan, ma trova riscontro in scelte politiche, decreti e processi. Nel 2023-2024 l’operazione Vannacci ha rappresentato il salto di qualità: un generale che ha costruito la propria popolarità sulla marginalizzazione delle minoranze e delle comunità LGBTQ+, trasformato dalla Lega in simbolo di “parlar chiaro”.
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni alterna registri differenti ma attinge allo stesso serbatoio. Il ministro Lollobrigida ha parlato apertamente di “sostituzione etnica”, importando in Italia un tropo complottista internazionale. Quando Antonio Scurati fu escluso dal palinsesto RAI, il governo rispose rovesciando i ruoli: la censura non sarebbe stata il problema, ma la denuncia stessa. Allo stesso tempo, Meloni ripete di essere vittima di un “clima d’odio” costruito da sinistra e media. Il paradosso è evidente: si accusa l’opposizione di fomentare rancore mentre il governo alimenta un discorso pubblico fondato sulla stigmatizzazione del dissenso.
La cassa di risonanza mediatica
Il sistema informativo che gravita intorno alla destra ha contribuito a istituzionalizzare l’odio come linguaggio legittimo. Il precedente resta la prima pagina di Libero “Bastardi islamici” nel 2015, che ha segnato un confine più permissivo. Da allora, titoli, rubriche e talk hanno spesso preferito la delegittimazione morale alla critica politica, moltiplicando il repertorio di nemici: migranti, magistrati, intellettuali, attivisti. Nel frattempo, all’interno della Rai, i giornalisti hanno denunciato con scioperi e comunicati il “soffocante controllo” dell’esecutivo, segnalando un sistema in cui la voce critica si riduce e l’eco dell’aggressività diventa dominante.
La sequenza è ricorrente: un evento traumatico, la costruzione del nemico, la rivendicazione vittimistica del potere, la traduzione in atti politici o mediatici. È la stessa logica che ha trasformato il funerale di Kirk in un pulpito da cui Trump ha potuto canonizzare l’odio come virtù civica. In Italia, le sue imitazioni non mancano.
Per questo le fanfare che si sono levate nelle ore successive alla morte di Kirk suonano vuote. Trump è il modello più alto della strumentalizzazione dell’odio, ed è a quel modello che guardano le destre anche in Italia. Non c’è pacificazione da costruire: l’odio non è una deriva, ma il cemento di una propaganda che funziona solo finché riesce a produrre nemici.