A Gaza oggi si respira un sollievo fragile. La notizia del cessate il fuoco annunciato da Trump ha portato un attimo di respiro a una popolazione allo stremo, ma la speranza è attraversata da troppi dubbi. Come raccontano i corrispondenti di Al Jazeera, mentre qualcuno festeggia l’accordo, altri non possono nemmeno tornare alle proprie case: l’esercito israeliano blocca ancora la strada costiera e spara. A Khan Younis, nelle stesse ore dell’annuncio, un bombardamento ha ucciso almeno una persona e ne ha ferite altre.
Il piano prevede una tregua di 72 ore e uno scambio di prigionieri, ma Israele continuerà a controllare più della metà della Striscia. Nella lista degli scarcerati non c’è Marwan Barghouti, il leader politico palestinese che avrebbe potuto segnare l’inizio di un nuovo percorso di rappresentanza. La sua esclusione racconta tutto: la pace che si vuole costruire è una pace senza voce palestinese.
Intanto, nelle carceri israeliane restano anche le persone della Freedom Flotilla e Thousand Madleens che sono in condizioni di detenzione illegali nella prigione di Ketziot, dove – secondo testimonianze dirette – i prigionieri subiscono umiliazioni, schiaffi, violenze fisiche e psicologiche.
Il mondo applaude al “cessate il fuoco”, ma le armi non tacciono e i detenuti civili non vengono liberati. È il paradosso di un accordo che promette la pace continuando a occupare, che si firma sopra le macerie di Gaza.
In attesa del cessate il fuoco con l’ombra di un’occupazione legalizzata, di una mangiatoia d’affari per i governi occidentali e con l’onta di un riconoscimento di un genocidio che non può passare in secondo piano. Non esiste pace se non esiste giustizia per gli orrori commessi. Non esiste pace per un popolo se non esiste il suo Stato. Tutti gli occhi su Gaza.