La Sveglia

Occhi su Gaza, diario di bordo #42

Oggi, a Sharm el-Sheikh, andrà in scena la liturgia della “pace”: tavolo lucido, bandiere allineate, firme che scivolano sul foglio. È un cessate il fuoco vestito da trattato, senza una riga sulla giustizia. Chi sale sul palco ha parlato di camion, cantieri, governance; nessuno ha chiesto tribunali, prove, responsabilità.
Donald Trump rivendica una «nuova Gaza» fatta di infrastrutture e «600 camion al giorno» di aiuti. Abdel Fattah al-Sisi insiste sulla «stabilizzazione» e sulla ricostruzione immediata con una presenza internazionale. Giorgia Meloni ringrazia Trump e annuncia che l’Italia «è pronta a contribuire a stabilizzazione, ricostruzione e sviluppo». Keir Starmer parla di «implementare senza ritardi» e di far entrare gli aiuti. Emmanuel Macron evoca una «forza di stabilizzazione» e una Autorità Palestinese riformata. Tutti dicono “prima i lavori”. Nessuno dice: prima i processi.
Sul tavolo non c’è l’accertamento dei crimini di guerra, non c’è la cooperazione con la Corte penale internazionale, non c’è il nome dei responsabili. C’è un manuale di project management: rimozione macerie, corridoi logistici, porti e aeroporto, il lessico delle grandi opere che arriva sempre un minuto prima della verità.
Gaza intanto conta i morti, i mutilati, le case spianate, i campi bruciati. Il ritorno dei profughi avviene tra cumuli e promesse. La «pace» presentata oggi non restituisce le vite, non ripara le colpe, non riconosce la vittima. È un condono politico ed economico calato dall’alto su un popolo a cui si chiede di ripartire senza giustizia. Finché la giustizia resta fuori dalla sala, quella firma resta una scenografia. Tutti gli occhi su Gaza.