Gite ad Auschwitz, scontro Roccella-Segre: se la senatrice a vita ricorda le responsabilità del fascismo, la destra ammutolisce

La ministra Roccella contro le "gite" ad Auschwitz e la destra tace: Liliana Segre non serve più se non può essere strumentalizzata

Gite ad Auschwitz, scontro Roccella-Segre: se la senatrice a vita ricorda le responsabilità del fascismo, la destra ammutolisce

Hanno passato mesi a brandire il nome di Liliana Segre come lasciapassare morale. Bastava evocarla per bollare come “antisemita” ogni critica alla guerra a Gaza, tacitare le piazze, squalificare gli atenei. Poi la ministra Eugenia Roccella ha detto, dal palco dell’Ucei, che «le gite scolastiche ad Auschwitz sono state incoraggiate e valorizzate perché servivano a dirci che l’antisemitismo era una questione fascista e basta», trasformando i viaggi della memoria in un espediente ideologico. E la destra che chiamava Segre a testimone si è zittita di colpo.

La replica della senatrice a vita è stata netta: «Stento a credere che una ministra della Repubblica possa definire “gite” i viaggi di istruzione ad Auschwitz… La memoria della verità storica fa male solo a chi conserva scheletri negli armadi». Non è un giudizio qualsiasi: è la voce di chi quell’orrore lo ha attraversato. Davanti a quelle parole, nessuna assunzione di responsabilità politica. Nessuna presa di distanza della presidente del Consiglio. Nessun chiarimento del vicepremier leghista. Nessun sussulto in Forza Italia. Solo un riflesso di routine: Roccella ha parlato di «parole strumentalizzate», ha sostenuto di aver «toccato un nervo scoperto», ha promesso che andrà «in Commissione Segre» a spiegarsi. Intanto la platea pubblica ha già capito il punto: quando la memoria non è utile a colpire l’avversario, la si accantona.

Il silenzio che racconta tutto

A sinistra le reazioni sono state immediate e documentate. Elly Schlein ha definito «indecente» l’uscita della ministra e ha chiesto a Giorgia Meloni di prendere le distanze. Francesco Verducci ha parlato di «parole deliranti» che violano una verità storica elementare: la Shoah come responsabilità del nazifascismo. Pina Picierno le ha giudicate «un’offesa a decenni di impegno, studio e testimonianza». Annalaura Orrico ha denunciato il «tentativo di riscrivere la storia». Da Avs, Angelo Bonelli ed Elisabetta Piccolotti hanno definito l’uscita un «insulto alla memoria», ricordando che i treni della memoria non sono un rito, ma un argine civile. Persino dal centro, Matteo Renzi ha scritto: «Io sto con Liliana Segre, sempre».

Il controcanto della maggioranza è rivelatore. Un deputato di Fratelli d’Italia si è limitato a dire che Roccella sarebbe stata «fraintesa» e che «il nazismo è il male assoluto», formula così generica da evitare il nodo. Al resto provvede il silenzio tattico: quello che nei mesi scorsi non c’era quando bisognava stigmatizzare gli “studenti estremisti”, i “professori ideologici”, i “giornalisti faziosi”, spesso brandendo il nome di Segre come marchio d’ordine. Oggi che la senatrice ricorda il nesso storicamente fondato tra Shoah e responsabilità del fascismo italiano, l’improvvisa afonia racconta più di mille comunicati.

La memoria piegata alla convenienza

Il cortocircuito riguarda l’uso politico della memoria. Nella narrazione di governo, l’antisemitismo diventa una categoria da agitare contro chi contesta il massacro di civili palestinesi; la storia del Novecento si sfronda del suo impianto fattuale per far spazio all’emergenza del giorno. Ma la memoria non è un utensile: è una responsabilità. E proprio perché lo è, le parole di Roccella feriscono. Non perché “vietato toccare i simboli”, ma perché toccano il cuore di un patto civile: la scuola che visita i luoghi dello sterminio non “assolve” il presente, lo attrezza a riconoscere l’odio quando si ripresenta.

Qui sta l’ipocrisia. La stessa destra che ha agitato Segre come scudo contro chi chiedeva giustizia per Gaza, oggi non trova un minuto per dirle «ha ragione». Preferisce parlare d’altro: “parole travisate”, “strumentalizzazioni della sinistra”, “antisemitismo di oggi” declinato come manganello ideologico. È un alibi che non regge. Perché se l’antisemitismo è «una mala pianta sempre rigogliosa», lo è anche quando si falsifica la memoria, quando si relativizza la responsabilità del fascismo, quando si confonde l’educazione civica con la propaganda.

Si può sbagliare una frase e chiedere scusa. Si può correggere un intervento pubblico e ristabilire i confini della storia. Quello che non si può fare è piegare la memoria a convenienza e abbandonarla quando non serve. Liliana Segre non ha cambiato posto: sta sempre lì. È la destra che ha perso la sua bussola, e con essa l’autorevolezza per pronunciare quel “mai più” che pretendeva di amministrare.